La Napoli presentata nel giallo “Questioni di sangue” di Annavera Viva (Ed. Homo Scrivens – 2014) è una città impregnata di una forte “sensazione d’emergenza”, in cui ci si sente scoppiare di vita. È una sensazione di positiva operosità che inebria e che contagia, ma che costringe i suoi abitanti a tenere ritmi che provocano, inevitabilmente, danni irreparabili. “Per sopravvivere senza lesioni” conclude l’autrice “bisognava nascere con gli anticorpi (…) bisognava nascere napoletani”.
Lo sfondo che racchiude le vicende del romanzo è il Rione Sanità, “un quartiere nato per guarire”, così salubre da far attribuire a questa terra una serie di miracoli e guarigioni ottenute con l’intercessione dei santi. La realtà è, tuttavia, profondamente diversa da quella racchiusa nel suo nome: la criminalità è dilagante, il degrado la fa da padrone e, cosa ancor più amara, la causa di questo stato non è sempre da ricercare nella malavita ma, spesso, in un atteggiamento generalizzato che contagia i servitori dello Stato.
Eppure dalle pagine di “Questioni di sangue” emerge anche il lato positivo della città, sempre in bilico tra il pittoresco e il grottesco (“Io? Don Raffe’, tutta Napoli gioca al lotto! Tutti cercano un po’ di fortuna per sistemarsi”), incline a chiacchierare sui vizi e le virtù del prossimo (“se uno cerca la privacy deve andare a vivere da qualche altra parte”) ma sempre pronta a rialzarsi quando è stata fiaccata e a proseguire comunque il suo cammino.
I nomi dei protagonisti sono entrambi preceduti dall’appellativo Don, anche se per ragioni profondamente diverse: se per Don Raffaele è l’abito talare che indossa a valergli il titolo, per Peppino il Don è segno di rispetto che la gente, la sua gente, gli deve tributare, un rispetto guadagnato con “la sopraffazione, la prepotenza, la brutalità”, incutendo timore, governando con pugno di ferro i traffici e la vita malavitosa del quartiere. Per certi versi, tuttavia, il quartiere gli riconosce una sorta di galantuomeria d’altri tempi che lo caratterizza come “uomo duro con chi sbaglia nei suoi confronti”, detentore di un codice morale che caratterizza i delinquenti ma che non appare presente nelle Forze dell’Ordine. Il dualismo tra questi personaggi rappresenta il principale meccanismo narrativo che fa muovere il romanzo.
Il sacerdote è impegnato a cercare di cambiare le cose e decide di farlo partendo dai giovani, dal confronto diretto e dall’accoglienza verso “i peccatori”. Nonostante i buoni propositi che lo animano, altera suo malgrado l’equilibrio di un quartiere che vive di leggi proprie, di regole non scritte che lui ignora. Proprio per questo non riesce a prevedere appieno le conseguenze delle sue azioni e si sente causa di una morte che, per quanto possa apparire per certi versi inevitabile, gli scaglia addosso il peso della responsabilità. Anche per questo finisce per intraprendere una sua indagine personale che lo porterà a scoprire risvolti nascosti delle persone che lo circondano.
Don Peppino resta invece intrappolato nel suo ruolo di appartenente alla cosiddetta “bassa camorra”, quella che si occupa, “con mezzi più o meno violenti della produzione di denaro tramite racket, droga e prostituzione”, contrapposta a quella “alta” che studia nelle “più prestigiose università del mondo per poi sedere nei consigli d’amministrazione delle banche internazionali, nelle banche, nei parlamenti”.
Il romanzo dà il meglio di sé nella cura con cui vengono descritti i personaggi minori che incontriamo nel corso della narrazione. Sembrano statuine che popolano un presepe vivo e brulicante di caratteri opposti: l’assistente sociale chiamata a togliere un bambino alla famiglia d’origine che rimpiange la “sua Torino, alle strade larghe e dritte, ai bei viali alberati, alla vita regolare e ordinata”, il vecchio medico che presta soccorso ai boss della zona, la perpetua che non vuole essere definita una pettegola perché “i pettegoli si interessano degli altri con cattiveria, invece, a me, i fatti degli altri piacciono”, il giovane che è “caduto sul lavoro” quando è stato freddato da un cliente insoddisfatto all’uscita della bisca clandestina che gestiva per conto dei boss, la donna che vende prodotti di contrabbando. Ma soprattutto nel personaggio che sembra sintetizzare con le sue parole l’intero senso del romanzo, quando dà la sua versione del significato profondo di libero arbitrio: la prostituta che sostiene che “non c’è bugia più grossa di quella che dice che ognuno ha la libertà di scegliersi la vita che vuole, solo i ricchi ce l’hanno questa libertà: gli altri si devono tenere la vita che gli è capitata”.
“Questioni di sangue” di Annavera Viva
Ed. Homo Scrivens – 2014
€ 14,00 – pag. 222
ISBN 978-88-97905-56-1