Henry Miller (1891 – 1980)
“La mia fame sono pezzi d’aria nera”, “Trovate fiori che siano sedie”, e Apollinaire che canta il suo “un signore che mangia sé medesimo “… Queste le surrealistiche fascinazioni che ricamano rapimento sulla pellaccia americana di Henry Miller, trapiantato francese nel ventennio tra il ’20 e il ’40 del secolo scorso.
Riguardo alla pubblicazione di Tropico del Cancro Karl Saphiro ebbe a disegnare quest’uomo come “il più grande autore vivente”. Probabilmente perché con la sua scrittura fu capace di fare quel che rende uno scrittore tale.
Sulla scia del medesimo automatismo psichico osannato a gran voce da Bretòn, con cui gli spiriti surrealisti si proposero di “esprimere, in qualunque maniera, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”, Miller si denuda e racconta dell’universo che davvero conosce, si spoglia di fronte ai fogli bianchi senza vergogna fino a dannarli con la sua anima santa, e in modo brutale, manesco.
Circa la sua scrittura, proclama “Mi stenderò sul tavolo operatorio e metterò in mostra le budella”. E sulla pagina sputa ciò che gli occhi vedono e quello da cui si nascondono, snocciola le immaginazioni, le sue personali distorsioni della realtà, ciò che gli appartiene e le cose che non gli apparterranno mai nonostante l’ardore ruvido di averle, urla a narici spalancata le fantasie, mette alla forca i suoi jours d’impasse e i suoi jours de jolie e ancora, appende gli stracci delle speranze e delle bestemmie che ronzano come mosche nella quotidianità di una vita passata affamato, nonostante, al contempo, Miller sia stato un essere piuttosto semplice, da ché tutto quel che implorava al santo cielo erano soltanto ” un mucchio di libri, un mucchio di sogni e un mucchio di fica”.
Scrittore amorale, scrittore scabroso, sanguigno, a tratti, spesso, obbrobrioso, non farà mai dei suoi scandali e delle sue scabrosità una ricercata provocazione stilistica, alleata delle bukowskiane mire. Tutt’altro, Miller si getta sulla pagina senza pose, a corpo libero.
Della sua scrittura non fece un prodotto e in tali termini, fu uno scrittore autentico. Così, quella spontaneità di parola, orfana di forzature, noi la respiriamo a pieni polmoni come una ventata di aria fresca benedetta.
In Tropico del Cancro scrive delle rue parigine e di coloro che le affollano, dell’esposizione di Matisse, là, dove un giorno si sentii ” di nuovo tratto nei giusti confini del mondo umano, quando il naturale grigiore va a pezzi ed erompe il colore della vita, in canto e in poesia “.
Scrive del boulevard Boumarchais, lì all’angolo, dove lo aspetta Germain con la bigiotteria triste sui tacchi logori, e di Claude, la puttana inibita, e poi Tania, amica e amante, e Fanny, e tutte le altre prostitute che frequenta, e tutte le altre donne che lo hanno accompagnato nella sua Parigi lucente e velenosa, spuntano tra i capitoli di Tropico del Cancro queste presenze femminili perché il Tropico in fondo cos’è, se non l’animo di Miller librificato?
Di un’umanità tragicamente teatrale, di se stesso e di Boris, di Van Norden, Carl, Sylvester e quegli altri che popolano le rue, queste pagine, intesse la burlesca trama dei deliri, delle follie, i cedimenti, le irrequietudini, i vertiginismi dello spirito con i suoi picchi di altitudine, le rimostranze, le beatitudini, le costrizioni, le immondizie e le santità, le bontà, le umiliazioni, le sofferenze e le escandescenze. Sfioriamo un Miller che scrocca pranzi e cene a chiunque capiti, affamato, sempre, un Miller correttore di bozze per tirar su quattro soldi, un Miller che si risolve salvandosi con la propria libertà, rifiutandosi sprezzante e crudele di essere per gli altri quello che gli altri cercano, s’inciampa, poiché fortunatamente due sono i Tropici, in quello del Capricorno, New York sta volta, che farà seguito alla Parigi infervorata.
Di fianco a una prosa lercia e amara, del Tropico taluni sono estratti sordidi, zigrinati, beceri, appunto, scabrosi, si cade irretiti prede della più lieve poesia, una mano celeste, par quasi gettata lì, per miracolo. Sfuggente, eppure abissale.
Molto più forte delle volgarità e delle sporcizie, è essa, l’unica e irripetibile, a essere l’erculea sostenitrice del mondo del Tropico. Grazie a questa poesia, intriso di vivente speranza.
Anche se Miller esordisce così, dipingendosi “senza soldi, senza risorse, senza speranze. L’uomo più felice del mondo “.