E’ Ferrara stesso a dire che la sceneggiatura di "The addiction" è una di "…quelle che arrivano così complete e precise nella loro visione che tu sai che devi assolutamente realizzarle.". In effetti la sceneggiatura, la regia e l’interpretazione sono così assolutamente perfetti da far pensare al capolavoro.
Assolutamente ignorato dai distributori classici, "The addiction" riemerge dal 1995 grazie ad un distributore indipendente come la Vitagraph ed al circuito FICE che raggruppa alcuni tra i più interessanti schermi della regione come il "Lumière" di Bologna, il "Rosebud" di Reggio E. o la "Sala Truffaut" di Modena.
"Vampiri a Berlino" fu uno dei titoli che accompagnarono "The addiction" al festival del 1995, dove rappresentava gli USA. Da allora l’oblio, nonostante il magnifico "Fratelli", ha accompagnato "The addiction" meritevole di un solo passaggio su Telepiù.
Il termine "addiction" significa "dipendenza" ed in questo film la dipendenza è quella del vampiro nei confronti del sangue. Il vampiro, nella più classica delle rappresentazioni, è immortale e con esso St. John (lo sceneggiatore) e Ferrara tentano di sconfiggere proprio la morte, disquisendo con spada e fioretto sul tema (St. John è laureato in filosofia…). Morte, religione, immortalità, morale, perversione, inferno, pietà, abbandono, tragedia: tutto questo è "The addiction".
Kathleen (la bravissima Lili Taylor di "Ragazze di città", "Ho sparato a Andy Warhol") è una studentessa di filosofia che ha appena assistito ad una sconvolgente lezione sui lager nazisti. La testa è ancora là quando incontra un’affascinante donna vestita di nero (Annabella Sciorra).
Kathleen è ancora distratta dalle immagini del nazismo, tanto da non comprendere con esattezza che la donna la sta per mordere profondamente sul collo. Non è una pittoresca aggressione sessuale; Kathleen trascorre una notte terribile dopo la quale non riesce più a lavorare alla tesi, non riesce più a vivere nel mondo che una volta le era familiare perché ha un’irrefrenabile desiderio di sangue che la porta ad aggredire gli sconosciuti, complice una forza mai avuta in precedenza. L’ammasso dei corpi degli ebrei sterminati fa da contrappasso all’altrettanto cinica realtà nella quale è stata catapultata Kathleen. Lei è ora un vampiro ed il male guida i suoi passi. In lei cresce anche una nuova personalità che si pone il problema del male, del suo radicamento negli uomini, della loro rale volontà di allontanarlo da loro, della loro patetica convinzione che non gli appartenga. Kathleen, come gli altri vampiri, chiede alle sue vittime di mandarla via, ma nessuna di loro riesce a comprendere che non è lei e la sua ferocia che devono scacciare ma il male che è in loro stessi. In un’apprensivo crescendo si arriva all’incontro tra Kathleen e Peina, una sorta di nobile della razza dei vampiri, perfettamente incarnato in Christopher Walken. Peina ha imparato a convivere con la propria immortalità e a controllare il proprio desiderio, non Kathleen che solo ora si rende conto del proprio stato e della dipendenza. Tra citazioni filosofiche e le raccapriccianti
immagini del nazismo emerge proprio il Male come vero protagonista del film e Kathleen impara che l’uomo non è malvagio perhcè compie il Male ma compie azioni malvagie proprio perché è Lui stesso il male. Il finale (assolutamente top secret per chi non andrà a vedere "The addiction") racchiude tutti i significati del vampirismo secondo St. John e Ferrara: la tragica immortalità, la schiavitù, la debolezza umana, l’erotismo del morso, la purezza dei vampiri. Insieme con "Fratelli", immediatamente seguente, Ferrara si schiera a favore dell’impossibilità di vivere senza un Dio che ci allontani dal nichilismo e dall’anarchia più irrazionale.
Il vampiro non vede sé stesso riflesso nello specchio perché non ha più un sé stesso da guardare, egli è tutto sé stesso e le sue azioni sono istintive e primitive.
La sceneggiatura di Nicholas St. John, amico personale di Ferrara, è frutto di una personale esperienza dolorosa; l’improvvisa morte del suo primo figlio. Ferrara coglie nelle parole dell’amico la volontà di esprimere con rabbia la verità sul male e sulla sua ricerca, compito ancor più difficile se svolto in quest’epoca egoista e cinica. Alla luce di tutto questo, perché poi prendersi il rischio di distribuire un film difficile, duro, violento, censurabile come "The addiction"? Semplice, per puro amore verso il cinema ed i suoi spettatori. Lo schietto accostamento tra nazismo e vampirismo, il bianco e nero, la mancanza di nomi di richiamo (secondo loro…) e la firma di un regista scomodo come Ferrara sono motivi più che sufficienti per scoraggiare chiunque, bisogna ammetterlo. Per fortuna che c’è ancora qualcuno che pensa che qualità e guadagno possano convivere.
Addicted to Abel
Michele Benatti