KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Strati (sovrapposti)

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Strati
(sovrapposti)


A Samantha e a Cesare,
e a tutti quelli che
in qualche modo
c’erano.
Come me.

La macchina è in viaggio da ore. Bologna. Modena. Bologna. E poi su, su. Autogrill. Notte. Buio. Si sono sentiti anche i CSI per radio. Ci sono state chiacchiere, sorrisi, ammiccamenti. La luce dei lampioni che corrono come frecce ai lati dell’autostrada. Ma ora c’è solo la voglia di arrivare. Di trovare questo benedetto albergo, di dormire un po’, e di godersi finalmente questo momento tutto nostro. Tutto nostro, sì. In quattro: due ragazzi e due ragazze. Non a coppie, amici.
Arriveremmo, se solo questo semaforo davanti alla galleria si decidesse a scattare.

"Cesare?"
Una voce limpida ma leggermente acuta squarciò il silenzio della stanza buia. Rimbalzò sulle pareti, ricoperte di carta da parati, saggiando lo spazio ristretto e odoroso dell’interno tre, via dello scalo, numero 15, e, poi, come ogni altro rumore, venne piano piano fagocitata dall’atmosfera calda ma improvvisamente cupa di quel luogo.
" Cesare? " ripeté la voce, ora striata da una venatura sottile di apprensione.
Il buio non era assoluto. Le prime ore di quella sera di giugno erano ancora cariche di un sole forte e caldo, ma dalle tapparelle abbassate tutto ciò che filtrava era un luminoso riverbero, sufficiente per non inciamparsi negli scatoloni sparsi per la stanza, ma non abbastanza intenso per cogliere con precisione gli oggetti che questi contenevano, o per leggere le costole dei libri o dei tanti CD ancora nelle scaffalature.
Samantha fece un altro passo in direzione del divano prima di fermarsi. Cosa era successo?
Un rumore strano. Il gatto – Fausto – che schizzava via in un lampo da sotto il tavolo e si infilava chissà dove in mezzo a quanto restava da traslocare. Cesare che diceva "ci penso io", la luce che spariva. Il silenzio.
Le era quasi sembrato un sogno, subito, e la penombra non le aveva causato problemi. Le era anzi in qualche modo sembrata naturale. Ma poi, dopo un lungo ed inspiegabile momento di torpore, la sensazione che qualcosa non fosse come doveva essere era affiorata con violenza.
"Cesare?" ripeté per la terza volta, poco convinta. La voce ora era carica di una irritazione crescente, le mani ai fianchi, il viso teso. Non le importava poi tanto di sapere cosa era successo. Ma dov’erano?
Sentì un altro rumore, un po’ più forte del precedente, e qualcosa sembrò cambiare davanti a lei. Un ombra si mosse quasi vibrando. Una rumore ancora. E quando riuscì a rimettere a fuoco quanto aveva davanti si accorse che il mobile di legno su cui avevano tenuto il computer fino a quattro giorni prima sembrava essersi allungato e inscurito. Possibile? Eppure, anche nella penombra vedeva adesso, al posto del solito tavolo di legno chiaro, qualcosa di alto quasi fino al soffitto, con quella che poteva essere un’anta aperta a tre quarti.
E il letto sulla destra? Quello sembrava un tavolo ora. Un grosso e massiccio tavolo scuro, coperto da un panno, e con sopra un vaso di fiori, vuoto.
Non capiva, ma non riusciva nemmeno ad essere veramente spaventata. Le cose intorno a lei intanto continuavano a cambiare continuamente da ogni parte. Alcune, durante questa metamorfosi, scricchiolavano o sembravano contorcersi con un fastidioso rumore metallico. Altre semplicemente apparivano, o scomparivano, senza lasciare neppure il tempo di accorgersi dei mutamenti.
Lei attese immobile, quasi senza respirare.
Ma mentre gli oggetti intorno a lei sembravano stabilizzarsi in una nuova forma, modificando completamente la stanza in cui si trovava, una curiosa inquietudine, più forte dell’incredulità e della paura, cominciò a farsi strada: il nuovo luogo le sembrava diventare via via più familiare, pur non riuscendo affatto a ricordare dove poteva averlo visto.

Santa Monica Boulevard. Cesare non si unisce al mio giro di Jack, ma anche lui accetta l’invito corale della folla intorno a noi, e ci dirigiamo in pista. Matteo e Samantha sono al Cocoricò. Liana in albergo a dormire. Io e lui insieme. C’è forse morale in tutto questo?, mi chiedo, sorseggiando quel fuoco aspro che ondeggia lento nel mio bicchiere di plastica trasparente. Ci sono serate che sono magiche anche senza bisogno di formule. Forse questa è una di quelle. O forse tutte le serate sono così, e noi normalmente non ce ne accorgiamo.
Sorrido e mi libero di un altro po’ di acqua di fuoco.
O forse ce ne accorgiamo, e poi subito ce ne dimentichiamo.

Antonio sta guardando la partita alla televisione. Il volume è un po’ troppo alto ma da quello che si sente fuori nessuno sta guardando altro che Italia-Svezia. Samantha si avvicina al divano e gli sorride. Ha dentro di sè una nebbia strana, che la turba. Si guarda intorno cercando un gatto. Poi si ferma. Lei non ha nessun gatto.
"Mi porti una coca, Sammy?" chiede Antonio, dolce, ma senza staccare gli occhi dalla palla. Le gambe si intrecciano spasmodicamente, come per seguire il tocco poco preciso dei giocatori in campo.
"Sì." risponde lei. La sua voce le sembra impastata. Qualcosa non va? Le viene in mente una foto, scattata da qualcuno, un suo amico le pare, in una via di Bologna. Una foto. Un lampo e l’immagine scompare nella sua mente. Come se non ci fosse mai stata.
Si guarda. Ha un vestito chiaro, lungo. Si passa la mano sul viso. Rossetto. Profumo. Invece di andare in cucina si dirige in bagno, mentre le grida dagli spalti, lontane, ma rese vicine dal 25 pollici del salotto, aumentano la sensazione di irrealtà.
Allo specchio fa fatica a riconoscersi. Invecchiata? No. Solo diversa. Un trucco che le suona nuovo e conosciuto insieme. Una pettinatura che non ricorda di essersi fatta. O forse sì?
Antonio… casa sua? No. Non è a casa di Antonio. E’ a casa LORO.
Si guarda le mani. Un anello. D’oro. Inutile fare finta di non capire. Lei sta portando una fede.
Una fede? Sposarsi. Sì. Voleva sposarsi. Ma con Antonio? Non ricorda bene. Si risciacqua il viso con l’acqua fredda. Sente le sue mani accarezzare i tratti che conosce da sempre. Ma si sente in qualche modo estranea.

Lo Sherlock è vuoto. Come sempre a quest’ora. Un paio di Bull, rosse. Ci si siede al tavolino più vicino alla finestra aperta. Come stai? gli chiede. Si parla, ma non ci si capisce sempre. Ci sono tanti punti in comune e tante tante differenze. Si chiede quasi cosa faccia lì con lui. Perché in quel pub. Si parla del lavoro della banca, ormai prossimo alla fine. Si parla di Tutti giù per terra. Si parla, beh, di poesie. Ne ha vari fogli con sè, da far leggere, da mostrare. Manuela dice che sono belle. Lo sono veramente? Chissà. Si scrive per scrivere, perché ha volte scrivere è il modo giusto di pensare. Si parla ancora, e si guarda il sole scendere tra i tetti delle case di Bologna. Quante sere ha già visto così?

Samantha ritorna in salotto e guarda Antonio.
"La coca?" chiede lui attirandola a se con un braccio e scoccandole un bacio su una spalla. Lo sguardo è dolce e sicuro. E pian piano si ricorda di quando l’ha conosciuto. Della loro vita insieme. Delle vacanze. Delle serate passate da soli.
Ha un brivido. Sente la pelle accapponarsi e un senso di disagio profondo arrivarle alla bocca dello stomaco.
"Scusa." dice, allontanandosi in fretta dal suo abbraccio. "Vado a prenderla."
Lui forse nota il gesto un po’ brusco, e la fissa perplesso, per il tempo di un passaggio. Poi Del Piero ritorna il suo unico importante pensiero.

Cesare la guarda senza farsi vedere. Lei è girata verso la laguna e sta pensando a chissà cosa. Magari sta pensando a lui, si dice. Del resto, lui sta sicuramente pensando a lei. Si avvicina e l’abbraccia. E ricorda altri abbracci. Le sussurra qualcosa di carino. Non è poi un abbraccio troppo sensuale pensa. E’ un abbraccio e basta. Ma è Venezia. Ma è lei. In fondo va bene così.
Guarda il cielo che si sta facendo scuro, e le nubi grosse e grigie. E’ felice. Così semplicemente. Si può forse essere felici in modo diverso?
Pensa che sarebbe potuto anche essere altrove. Oppure che poteva esserci qualcun altro insieme a loro. Cosa sarebbe successo in quel caso? Ha voglia di baciarla, ma lei vuole parlare e parlare. Il casinò non è lontano, ma si tratta più di tempo che di spazio. Ore, minuti. Non certo metri o chilometri.
Un lungo cammino l’ha portato lì con lei, e lo sa. Un lungo cammino ora li unisce.

Si ricorda di Cesare. Sì. Non è passato poi tanto tempo. Amici. Qualcosa di più forse. Ma… Cesare. Cerca di ricordarsi bene il viso. Cerca di ricostruirne la voce. La sua immagine è ancora lì, da qualche parte. Nemmeno troppo lontana. Ricorda… un abbraccio? Il rumore dell’acqua che si infrange contro qualcosa. Non il mare, però… ma cosa?

Tre facce del prisma: il passato si congiunge al futuro in un punto in cui sembra esserci uno stacco. La luce filtra e un piccolo arcobaleno sembra emergere dal nulla. Lui pensa al prima e al dopo. "Cosa vuoi fare?" La luce aumenta. Si vede una piazzetta. Cesare è davanti a Samantha. Si guardano. Non sono soli, ma le parole ogni tanto non hanno bisogno di trovare spazio nell’aria. Ci sarà tempo. Le cosa solo diventano più chiare.
Le tre facce del prisma: lei guarda una vetrina di panettiere. Sente il profumo del pane caldo. Vede il viso di lui riflesso poco distante. E’ girato e ride, mentre parla con Marco. Liana, con grossi occhiali da sole, guarda altrove e le sta raccontando di ieri. La sua voce calda e lenta, e il suo accento fragrante, sono il segno che è tutto vero.
Una faccia oscura: basta una esitazione e la luce non colpisce il primo specchio. La fontana di luce forse può non brillare come dovrebbe. Un cimitero a Praga. Un treno in Inghilterra. Voci. Discoteche. Un attimo di esitazione, o di orgoglio. Un rifiuto, le voci degli amici, i pensieri le feste le serate in attesa che, le poesie. Basta un attimo e l’istante è passato. Un attimo solo e non si riesce più a cogliere la sfumatura giusta. Via il pennello. Via la tela. L’ora della luce è finita.

Prende in mano il vaso dal centro del tavolo coperto dal panno. Lo osserva e non lo riconosce. Ricorda però le foto scattate a Salisburgo con gli amici. E con Cesare. Ricorda però il suo passato con lui. Il suo passato? La testa le inizia a fare male. Non si sovrappongono forse i ricordi? Non si è svegliata anche stamattina di fianco a lui? Parigi. Monaco. Non era forse con LUI?

Ci si sdraia sul prato, disponendosi a raggiera. Le nubi hanno forme strane. Non sembra il suo viso, quello? Forse alcune strade sono già scritte.

Osserva ancora il vaso. La voce concitata del cronista sembra farsi più lontana. Ha cucinato per tutti e due, si dice. Poco fa. Risotto agli asparagi. Venuto anche bene. Non anni fa. Il gatto. Fausto.
La voce del cronista sembra abbassarsi fino a scomparire.

La strada sfreccia ai lati. Un brivido mi sale lungo la schiena ripartendo dall’autogrill poco prima della frontiera, in direzione Monaco. La macchina di Cesare è enorme per me da guidare, abituato alla mia Ritmo grigia. Ma è bello correre ogni tanto con un motore che sembra indifferente alla velocità. Solo l’alternarsi continuo di luce e ombra, del giorno e della notte artificiale delle gallerie mi stordisce un po’, mentre la radio come sempre suona, promettendo Fisherman Blues, e l’occhio indiscreto di una super otto mi minaccia dalla sacca appoggiata tra i piedi delle ragazze dietro. Cesare guarda fuori, ma gli occhi della mente non hanno direzione. E i miei, mi chiedo, su cosa sono puntati?

"Eccolo, questo vecchio furfante!" dice Cesare sollevando sopra la testa Fausto, che intanto cerca di graffiarlo in tutti i modi, e lo osserva con una espressione indefinita e i dentini bene in vista.
Samantha abbassa il vaso che scompare, e lo guarda stupita.
Non c’è più il tavolo, né l’armadio. Al posto dell’enorme finestra e della vista sulle basse palazzine in costruzione è riapparsa la libreria.
La stanza adesso è come prima. Coperta di scatoloni fino all’inverosimile, ma illuminata e normale. La casa di sempre, che ha imparato a sentire sua da tempo ma che in qualche modo è felice di lasciare.
Le sembra quasi di cogliere, con la coda dell’occhio, qualcosa che si deforma appena al di là del suo campo visivo. Le verrebbe voglia di correre fino all’ingresso per catturare questa trasformazione, ma qualcosa la trattiene.
Non è la paura, o almeno non solo.
E’ l’immagine di lui, e di Fausto. Del loro prossimo futuro.
Si guarda velocemente le dita, prima di prendere in braccio il gatto e di tornare nella zona pranzo.
Nessuna fede.
Sorride.
Nessuna fede, ma solo per ora.

Postfazione

Non si può descrivere il mare. Non quando alla sera lo guardi dalla spiaggia e ti senti uno straniero. Non quando del mare hai pochi ricordi belli, ma sempre ti tornano alla mente tutti e ci stai male. Ricordi che sai essere preziosi, ma che devi dimenticare per andare avanti.
Cammino solo sugli scogli, e ogni metro che faccio mi sembra di essere più libero. Il mare a destra. Il mare a sinistra. Il mare davanti a me. Solo una sottile striscia di pietre scivolose mi ricorda da dove vengo. Solo quelle pietre sono il mio legame con il passato. Non si parla di sbagli, no. Si parla di scelte. Prendi una cosa, ne lasci un’altra. Apri una porta e non ne apri un’altra. Non c’è quella sensazione triste di pentimento. Le cose sono andate bene, dopo tutto. Meglio, forse, di come mi sarei meritato. Ma la curiosità c’è. La curiosità di sapere cosa l’attimo che hai scelto di non vivere avrebbe racchiuso. Se fosse possibile, adesso, tornare indietro. Se fosse possibile riprovare, e togliersi quell’ultimo capo striminzito rimasto addosso, dire quella frase che è rimasta lì, fare quella telefonata. O non fare quell’altra. Non dire quella cosa che non andava detta. Se fosse possibile, dove sarei ora?
Gli scogli sarebbero qui, sotto i miei piedi, oggi, adesso? Vedrei il mare intorno a me, verrei accarezzato da questa brezza? Penserei a tutti i miei compagni di momenti diversi?
O sarei altrove?

O sarei qua.


Marco Giorgini

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