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La quimera de los heroes

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La quimera de los heroes

Presentato alla 60 Mostra del cinema di Venezia, nella sezione Controcorrente, ha ricevuto una menzione speciale della giuria: "Per lo stile asciutto e conciso e per il modo suggestivo con il quale vengono rappresentate la profondità e l’ambiguità dei personaggi coinvolti"
Il film per la regia di Daniel Rosenfeld (produzione Argentina/Francia/Danimarca/Argentina Sceneggiatura di Eugenia Capizzano, Daniel
Rosenfeld, Edgardo Cozarinsky) e’ piuttosto noioso per la maggior parte del tempo. E’ stato girato come uno pseudo-documentario, con immagini sgranate, riprese "in fretta", come per un servizio giornalistico che deve andare in onda presto e non c’e’ tempo per curare i dettagli. Bisogna mostrare quello che succede, documentare il piu’ possibile e alla svelta.
Ma non e’ un documentario. E’ una storia fantastica sulla passione di un allenatore di rugby per la chimera di una vittoria impossibile, quella di una squadra di rugby improponibile (formata da soli ragazzi aborigeni della tribù dei Tobe) sulla nazionale argentina, e per un progetto per la costruzione di un museo per gli aborigeni. Un museo di armi, carri armati, elmetti. Perche’ gli aborigeni devono imparare la Storia. Ma solo la seconda guerra mondiale, il resto non interessa…

Il film comincia al funerale di un giovane alcolizzato. Uno di quei ragazzi muore. Non dovra’ capitare piu’.
Il lavoro nobilita l’uomo, ma non basta. Allenamenti, spirito di gruppo e la lezione della storia per creare una coscienza aborigena. Ma la televisione racconta la carriera politica di Reagan. "Ma che ne sa Reagan?" Meglio un museo di storia della seconda guerra mondiale. Percio’ non importa se l’elmetto, che arriva per posta, e’ piccolo. Troppo piccolo per il capo dell’allenatore. In fondo ne possiede gia’ altri 108.

Le elucubrazioni in tal senso sono la vita dell’allenatore(interpretato da Eduardo Rossi). La squadra – formata dai soli veri eroi della storia – rimane un dettaglio, sempre in sottofondo al personaggio centrale.
Uno strano individuo questo allenatore. Sembra reazionario per l’aspetto, per i modi e per quella strana fissazione sulle armi della seconda guerra mondiale. A fatica riusciamo ad apprezzare il fatto che sia riuscito a cambiare opinione sul mondo e vive, da allora, coerentemente.
Forse e’ da quando ha visto il museo dell’olocausto che e’ avvenuta la svolta. E forse e’ da allora che colleziona cimeli di guerra e ha cominciato condividere le idee dei genitori socialisti, che aveva rinnegato in passato. E sceglie di vivere nella giungla di Formosa in Argentina dove allena quell’improponibile squadra di rugby formata da soli aborigeni. E la squadra si deve allenare e spostare. Si muovono su una camionetta russa, con tanto di marchio CCCP accanto alla stella rossa. Anche quella camionetta dell’armata rossa e’ per la fondazione aborigena. Per il museo degli aborigeni, che devono sapere cos’e’ stata la seconda guerra mondiale. Il resto non conta.

Contano solo i nuovi cimeli che arriveranno per intercessione di qualche militare locale. Conta sapere, ricordarsi sempre che "la squadra e’ come un pugno. Tutte le dita servono per un colpo secco. Quello fatale."
Ma la partita sembra non arrivare mai. L’aspettiamo per tutto il film. Prima del momento fatidico dobbiamo sorbirci tutti gli sproloqui dell’allenatore sulla squadra, sulle armi, sugli allenamenti, sul museo della fondazione. In sottofondo, sfumati come i soldati in un reportage di guerra, sempre in silenzio, vediamo i giocatori-eroi che si allenano.
Anche l’incitazione alla gara – a quella fatidica, aspettata per tutto il film – e’ solo dell’allenatore.
Il silenzio dei giocatori lascia esterrefatti. Un silenzio pazzesco che insinua il dubbio sulla squadra che abbia effettivamente vinto. Quelle incredibili facce aborigene, del resto, sono improponibili per il rugby. Ma vincono. Battono gli avversari in silenzio. Vincono su tutti quelli che li hanno sfruttati. Vincono e basta, anche sull’allenatore. E il silenzio diventa assordante.

Silvia Fedeli

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