KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

64a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica

12 min read

64a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – 75° anno di nascita – in pratica Venezia 2007

Marco Müller è proprio bravo, forse troppo. Diventa francamente difficile abbozzare qualche critica ad una macchina festivaliera che negli ultimi anni ha trovato un perfetto equilibrio organizzativo, in un contesto non facile come quello del Lido di Venezia. Le star ci sono e tante, la selezione delle pellicole è discreta, compatibilmente a quello che offre il mercato mondiale, gli eventi si sprecano, la ricerca di nuove cinematografie, giovani, geograficamente varie, è tesa sempre verso la qualità, ma non si dimentica nemmeno il mercato, l’intramontabile america, ma anche l’avanzante strapotere cinese, sempre più deciso ad investire anche nell’industria del cinema. Nemmeno il muro del pianto di Ippoliti (gli oramai istituzionali giudizi spontanei del popolo cinematografico) ha prodotto le considerazioni pungenti degli anni precedenti (le critiche più diffuse chiedevano l’accesso alle sale anche ai minorenni…). Anche la penna solitamente graffiante di Stefano Disegni, nella sua visione fumettistica del Festival, ha elaborato opinioni poco originali. Personalmente, poche occasioni, ma soprattutto poca voglia di fare critica, come se si fosse meno calati, rispetto ad altre edizioni, nell’evento. Certo, l’abitudine impone i perenni pareri contrastanti sui premi assegnati, anche se Venezia ha trovato, pure in questo caso, il giusto compromesso, tutto italiano, di accontentare tutti, nella creazione di riconoscimenti nati dalla fantasia di un romanziere navigato (Leone Speciale per l’insieme dell’opera …!?), o elargendo premi esclusivamente legati al mercato (le palme agli attori, tranne qualche ovvia eccezione, nelle ultime edizioni, hanno seguito logiche più commerciali che di merito). Fra le altre sensazioni di quest’anno, il “Festival percepito” (orrenda parola, super inflazionata, per dissimulare cambiamenti di cui la gente non deve dubitare), è che ci siano state minori presenze. Io l’ho avvertito, nella maggiore facilità di ingresso alle proiezioni, fin dal primo weekend, storicamente il più critico e problematico da gestire, e dalle voci dei commercianti del Lido, più scontenti dei propri minori affari. Effetto Festival di Roma…? Oppure ragionando in fantapolitica, effetto “casta” e prezzi al Lido sempre più proibitivi…? Tornando al nostro Marco Müller, senza scordarsi neppure di Davide Croff, suo alter ego e presidente della Biennale, nonostante tutto il lavoro positivo, potrebbe essere il loro ultimo anno come responsabili dell’evento veneziano, proprio nella natura delle cose che prima o poi giunga un termine ed un cambiamento. Rimpianti o meno, sarà comunque l’occasione di nuove critiche e confronti.

Quindi non mi rimane che parlare delle pellicole, che ho raggruppato in alcune macrosezioni senza tener conto delle differenti categorie (Concorso Ufficiale, Sezione Orizzonti, Settimana della Critica, Giornate degli Autori, Fuori Concorso, ecc..) secondo il mio personale gusto. C’è da premettere che ancora una volta il Festival ha riunito in concorso nomi importanti, indice non matematico di una corrispondente qualità della pellicola presentata, ma comunque indice di una selezione apprezzabile.

Il migliore: senza ombra di dubbio è stato “La Graine et le Mulet” di Abdellatif Kechiche, film che tra l’altro attendevo con curiosità (e con mia grande soddisfazione non solo io fra i frequentatori di quest’anno), visto le precedenti apprezzate opere del regista tunisino. La pellicola rappresenta l’ennesimo spaccato familiare sull’emigrazione, in questo caso famiglia magrebina-francese, alle prese con contrasti quotidiani e crisi di lavoro. La vicenda ruota intorno al padre che decide di svincolarsi dalle incertezze future per lasciare qualcosa ai suoi figli, cercando di aprire un ristorante su una vecchia barca. Dovrà ovviamente scontrarsi contro burocrazie, tensioni famigliari e sguardi diffidenti da parte dei ristoratori locali, cercando collaborazione nel suo clan, fra amici e parenti. Si può affermare che il vero protagonista del film è il cuscus (ed è sicuramente sconsigliata una visione a stomaco vuoto, per evitare i crampi della fame), ma anche la musica, le tradizioni, la famiglia, e tutte le contraddizioni di una società alle prese con un’integrazione non sempre ben accetta. Al film è stato giustamente assegnato il Premio Speciale della Giuria (probabilmente riconoscimento che gli va un po’ stretto), ex aequo con “I’m Not There” di Todd Haynes, ed un meritatissimo Premio Marcello Mastroianni alla giovane attrice protagonista Hafsia Herzi. Consigliato.

I discreti: più o meno tutti i film premiati, ma qualcuno in particolare lo vorrei segnalare.

Innanzi tutto due film italiani che hanno un po’ salvato la spedizione nazionale a questo Festival, dove, soprattutto in concorso, si sono viste pellicole decisamente non all’altezza. Dopo il successo di “Viva Zapatero” dell’anno passato, presentato a sorpresa proprio qui a Venezia, Sabina Guzzanti ha replicato in quest’edizione con il suo secondo lungometraggio “Le Ragioni dell’Aragosta”, dove recupera anche i suoi vecchi compagni di ventura dell’epopea di “Avanzi”, la trasmissione televisiva di Rai Tre che l’ha lanciata, insieme al fratello Corrado ed ad altri comici di talento (Francesca Reggiani, Antonello Fassari, Cinzia Leone, Stefano Masciarelli, Pier Francesco Loche). Decisamente un buon film, ben girato, divertente ma anche riflessivo sulla situazione politica e sociale italiana, ripercorrendo le tematiche del precedente, ma a mio parere più equilibrato, più maturo. Insomma la Guzzanti si conferma, nel suo nuovo ruolo di regista, decisamente in stato di grazia.

Altro gradito ritorno, dopo il suo primo originale lungometraggio “A domani”, dopo qualche anno di silenzio, è Gianni Zanasi che con “Non pensarci”, ci riporta nella provincia a lui cara, seguendo le vicende di un rocker in crisi artistica, che pensa di ritrovare un proprio equilibrio, riavvicinandosi alla sua borghese e provinciale famiglia. Invece la “casa dolce casa”, si rivela essere non così felice come le cose potrebbe far pensare, ma piena di problemi e contraddizioni. Il film è divertente con un bel cast (Giuseppe Battiston, Anita Caprioli, Valerio Mastandrea, nei ruoli dei tre fratelli).

Fra i film in concorso, c’era molta curiosità intorno alla pellicola di Todd Haynes, “I’m not There”, che ripercorre alcuni momenti della vita di Bob Dylan, utilizzando però i volti differenti di diversi attori, a sottolinearne le diverse fasi artistiche e personali. Richard Gere, Ben Whishaw, Heath Ledger, Cate Blanchett, Julianne Moore, Christian Bale, Charlotte Gainsbourg, compongono il ricco cast di questa opera, forse troppo ricca di citazioni per i profani che non conoscono bene la vita e le canzoni del musicista americano. Sicuramente un film per fans, più adatti a cogliere i non sempre lineari riferimenti, nei vari contesti in cui si muovono i vari protagonisti. Da sottolineare la superba prova di Cate Blanchett, giustamente premiata con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.

Fra i registi più originali che si sono affacciati nel panorama cinematografico internazionale degli ultimi anni, c’è sicuramente Wes Anderson, anch’egli portato in concorso qui a Venezia con una pellicola che già dalle locandine prometteva scintille. “The Darjeeling Limited”, è una commedia on the road in treno attraverso il Rajasthan, i cui protagonisti, tre bizzarri fratelli, si ritrovano, ad un anno dalla morte del padre, alla ricerca della propria madre, che vive in India. Il viaggio li porterà, inevitabilmente, alla ricerca anche di sé stessi. Come già nelle precedenti opere del regista americano (“I Tenenbaum”, “Le avventure acquatiche di Steve Zissou”), la trama è molto originale, i personaggi spassosi nella loro carica tragicomica, ma contiene in sé sempre il medesimo difetto, forse la mancanza di una punta di razionalità che ci impedisce di assistere al capolavoro che le premesse indurrebbero a credere. Forse a rafforzare questa idea, il piccolo corto “Hotel Chevalier”, presentato fuori concorso in testa al film, e di cui rappresenta una sorta di inizio, proprio per la sua breve durata di 12 minuti, può essere considerato invece l’elemento perfettamente riuscito, un piccolo gioiellino che vede protagonisti Jason Schwartzman (uno dei tre fratelli di “ The Darjeeling Limited “, nonché co-sceneggiatore del film) e Natalie Portman.

Due parole le merita sicuramente anche quello strano genio creativo di Peter Greenaway, che dopo le sue ultime opere eccessivamente sperimentali e francamente deludenti, torna in concorso a Venezia dopo 16 anni, con “Nightwatching”, pellicola che vede protagonista una delle tele più famose del pittore olandese Rembrandt, Nightwatch (La Ronda di Notte), opera maledetta realizzata all’apice della sua carriera, nel 1642. Film stranamente lineare, dove l’interessante analisi dell’opera pittorica, attraverso la ricostruzione degli eventi che la portarono a concepimento, ci proietta in una vicenda ricca di intrighi e complotti.

“En la Ciudad de Sylvia”, altro film in concorso dello spagnolo Jose Luis Guerin, mi attirerà sicuramente delle critiche da parte di molti. Il film non è stato proprio apprezzatissimo, piuttosto lento, incentrato molto sulle immagini e poco sul dialogo, direi “voyeuristico” nella sua giusta definizione. La vicenda è piuttosto banale, un giovane artista, in vacanza a Strasburgo, segue il ricordo di una ragazza incontrata anni prima, con uno sguardo quasi ossessivo sulle giovani donne dei luoghi da lui frequentati. Rappresenta il classico film che si apprezza, e questo è il mio caso, in maniera non razionale, dettato soprattutto dalle sensazioni e dalle emozioni comunicate dalla pellicola al momento della visione.

Infine una riga per citare il buon film di Ken Loach, “It’s a Free World”, che come al solito si trova molto a suo agio nel descrivere gli ambienti proletari e socialmente più penalizzati, ma che sembra (o non gli interessa) non uscire mai dal proprio ambito cinematografico. Mi piacerebbe un giorno vedere un film del regista inglese senza dover dire che è il solito film di Ken Loach.

Per ultimi vorrei segnalare due documentari, molto differenti fra di loro, ma estremamente interessanti nei contenuti.

“Jimmy Carter Man from Plains”, di Jonathan Demme, filma l’ex presidente USA (1977-1981) Jimmy Carter, durante il tour promozionale del suo ultimo libro, “Peace, not Apartheid”, che ha suscitato molte polemiche a causa delle sue posizioni nettamente contrarie al colonialismo israeliano e all’emarginazione civile cui sono costretti gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania. Alla fine il film risulta essere un omaggio ad un personaggio, ricordiamo tra l’altro il Premio Nobel per la pace nel 2002, che si è sempre battuto, e che si batte tuttora, per portare un messaggio di speranza e solidarietà in una situazione politica internazionale da sempre in grande crisi.

L’altro documentario, “Paloma Rocha Anabazys” del regista Joel Pizzini, lo vedrete sicuramente in un Fuori Orario di Ghezzi, perfetto per la programmazione notturna di Rai Tre, perché è un omaggio ad uno dei registi cinematografici brasiliani più famosi, Glauber Rocha, morto a Rio de Janeiro nel 1981, uno dei padri del Cinéma Nôvo, premio per la regia a Cannes nel 1969. In particolare la pellicola, analizza la sua ultima opera, “A Idade da Terra”, presentata in concorso a Venezia nel 1980, film altamente criticato (letteralmente massacrato) all’epoca.

Questo film documentario, che contiene interviste con il regista ed il cast, immagini di scena e della pellicola, mi ha molto incuriosito, non conoscendo assolutamente la figura di Glauber Rocha, consigliata a chi vuol farsi un’idea sul cinema militante, sperimentale e mistico di questo autore (a mio parere un autentico pazzo).

La massa (film poco incisivi, guardabili, ma francamente dimenticabili): sarebbero molti, troppi per essere citati tutti, e per questo ne scelgo solo un paio rappresentativi (entrambi nel concorso ufficiale di questa edizione del Festival), uno della situazione cinematografica italiana, e l’altro della più importante cinematografia mondiale, cioè quella americana.

“Il Dolce e l’Amaro”, di Andrea Porporati, è l’ennesimo film italiano sulla mafia, che prende in prestito l’icona Lo Cascio, per consegnarci un personaggio ambiguo (per la simpatia che ispira, nonostante il suo ruolo di killer), ripercorrendone la “carriera” che lo porta ad essere un uomo d’onore, le conseguenti responsabilità verso la famiglia, ed il tradimento verso di essa. Questo personaggio è perfetto per mettere in luce anche gli aspetti ridicoli e demenziali, al di là di quelli drammatici, che la mafia rappresenta, attraverso i suoi riti scaramantici e di iniziazione.

Il tentativo è lodevole, l’idea di rappresentare la mafia da un altro punto di vista, che non fosse quello solamente della violenza, potrebbe in qualche modo esorcizzare anche il fenomeno, e togliere quella patina di sacralità di cui è investita. Il problema è che, a mio parere, il regista non ha avuto abbastanza coraggio da renderla ancora più ridicola, quasi si fosse fermato per timore di allontanarsi troppo da una visione più conformista del fenomeno, con il risultato di vederci proiettare su tematiche più vicine alle fiction di genere, che non ad un’opera originale sull’argomento.

Questa pellicola mi ha fatto venire in mente “Ghost Dog”, il film di Jim Jarmusch del 1999, dove mi aveva colpito la rappresentazione della mafia (in quel caso italo-americana) macchiettistica e ridicola. Per questo ritengo che sia stata un’occasione sprecata, ed il film, alla fine, risulta essere abbastanza inutile.

L’altro film, quello americano, di cui vorrei parlare è “The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford” di Andrew Dominik, prodotto ed interpretato, fra gli altri, da Brad Pitt. Anche qui ci troviamo di fronte ad una pellicola di genere, l’intramontabile western (quest’anno la Mostra ne è stata investita, con una ricca retrospettiva di cui si è molto parlato, e diversi film anche in concorso), con una delle vicende che hanno fatto la storia americana. La trama ruota attorno al personaggio leggendario di Jesse James e del suo assassino Robert Ford, ed al rapporto psicologico che legava i due uomini. Entrambi facevano parte della stessa band di fuorilegge, costituita fondamentalmente da due grandi famiglie, i James ed i Ford che erano imparentate fra loro. La figura di Jesse era già nella leggenda, e Robert Ford ne era assolutamente affascinato. Tutta la pellicola ruota attorno a questi momenti finali della vita di Jesse James, di come si è arrivati alla sua morte, e delle conseguenze di questo fatto. Il film è anche interessante proprio da un punto di vista storico, si parla della guerra civile americana, e di come Jesse James, sudista, fosse considerato dalla maggioranza delle persone non come un fuorilegge ma come un patriota. Il problema qui è l’ingombrante presenza di Brad Pitt, che ovviamente interpreta il ruolo di Jesse James (ruolo che tra l’altro gli ha fatto vincere la Coppa Volpi come migliore interpretazione maschile), per cui la pellicola diventa automaticamente un prodotto hollywoodiano, dove il protagonista assomiglia più ad un modello di Vogue che non ad un personaggio realistico, pregiudicando in questo modo anche le buone intenzioni del film. Sarebbe stato forse più interessante vedere questa pellicola, puntando più sulla storia che non sul cast di grande richiamo.

I peggiori: anche qui rappresentativi, più che della selezione di questo festival, in cui francamente è stato difficile trovarne dei peggiori, dei difetti atavici di due storiche cinematografie come quella italiana e quella francese, in cui spesso capita, rispetto ad altre realtà, di trovarsi di fronte a certi prodotti.

“L’ora di punta” di Vincenzo Marra era approdato a questo Festival dopo una serie di discutibili polemiche, in seguito alle dichiarazioni fatte dall’attrice Fanny Ardant, fra i protagonisti del cast, sulla figura di Renato Curcio. La pellicola si era quindi procurata involontariamente (?) una discreta pubblicità prima della kermesse veneziana, e francamente le buone cose fatte in passato dal regista e la produzione Rai, facevano ben sperare di avere in mano un film potenzialmente premiabile. Delusione assoluta, non è stato il primo caso ne sarà l’ultimo di un film italiano in concorso qui a Venezia, fischiato dal pubblico. Storia banale (vicende di corruzione italiche – i furbetti del quartierino), svolta in maniera banale, con dialoghi discutibili ed attori non all’altezza. Direi l’amplein di cose negative, ed ennesima figuraccia Rai, che sembra spesso non capire i prodotti che ha per le mani, e quelli che invece si lascia sfuggire, a conferma di una crisi aziendale che non tocca solamente gli ambiti televisivi.

Sembra invece un’ossessione tutta francese quella di dover fare dei film sul sesso e sui rapporti che l’individuo ha con i propri gusti e perversioni, argomento che secondo me non ha mai prodotto niente di memorabile, e che invece spesso nella cinematografia d’oltralpe viene presentato come un bisogno fondamentale dell’uomo moderno. Questo ha portato qui a Venezia la pellicola di Damien Odoul, “L’Histoire de Richard O.”, riassumibile in una frase che prendo a prestito da uno dei commenti murali dei frequentatori di questo Festival: «…Ho visto “L’Histoire de Richard O.”, sono uscito dal cinema e mi sono fatto una sega piangendo …».

Commenta