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Per i sentieri dove cresce l’erba – Knut Hamsun

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L’ORGOGLIO E LA STANCHEZZA.  

È vero che non sono disoccupato. Come tutti di questi tempi devo accomodare ogni giorno le mie calze e rammendare la mia giacca sui gomiti. Poi vengono tante piccole faccende delle quali non voglio nemmeno parlare: devo rifare il letto, arrotolarmi la sigaretta del mattino e ammazzare le mosche. Devo fissare la gamba della sedia che s’è messa a ballare proprio adesso, devo mettere un chiodo nel muro per il mio cappello, per la qual necessità mi sono già trovato un bel sasso. Infine dovrei decidermi a rispondere a una certa lettera che è arrivata il mese scorso, ma non mi sento scrittore e lascio perdere per il momento. Sarà fatta ogni cosa” (Knut Hamsun, “Per i sentieri dove cresce l’erba”).

 

 

Per i sentieri dove cresce l’erba – afferma Magrisè il grande libro in cui Hamsun, rifiutandosi caparbiamente di ammettere la sua sconfitta e le sue contraddizioni, smaschera involontariamente i propri paradossi. Aveva creduto di poter opporre la ruvida personalità delle cose alla spigolosità geometrica dell’ideologia; ingenuo araldo dell’impossibile immediatezza, non poteva che approdare all’anti-ideologia, cioè alla cattiva ideologia. Per combattere il potere del denaro e l’esproprio della persona, finisce complice e aedo della loro manifestazione più mostruosa”.

 

Al povero recensore non rimangono, a questo punto, che misere annotazioni e disordinate riflessioni: lo spirito dell’opera del talento norvegese è stato scandagliato e sintetizzato da un letterato italiano che vive già accompagnato da una fama immortale – è forse essenziale una franca sfrontatezza, altrimenti si cede il passo. Allora: “Per i sentieri dove cresce l’erba” probabilmente non è un grande libro: è un contrastante e contrastato diario d’un grande artista, disorientato e avvilito dalle drammatiche conseguenze delle sue infauste e scellerate scelte politiche. Non è certo caparbio nel rifiutare d’ammettere la sua sconfitta: è coerente, ma è sfinito. Non c’è un solo frangente che splenda di caparbia riottosità a confessare le proprie responsabilità: c’è una lineare ammissione delle proprie convinzioni, qualche implicito atto d’accusa nei confronti di una parte della popolazione pronta all’abiura, qualche desolata constatazione d’esser rimasto all’oscuro di certi episodi di violenza e prevaricazione che insanguinavano il paese. Hamsun non si ribella alle decisioni delle autorità: non rivendica i suoi ideali, non afferma la sua dedizione a una causa. Sollecitato dai giudici, riesce ad appellarsi solo al futuro: “Niente mi portò un vantaggio, no, al contrario fece sì che agli occhi e nel cuore di tutti io stessi tradendo la Norvegia, la Norvegia che volevo esaltare. Io la tradivo. Bene, sia pure. Sia pure tutto ciò di cui quegli occhi e quei cuori vogliono imputarmi, sia. Sono io che ho perso, e devo subire. Fra cent’anni sarà tutto dimenticato. A quell’epoca anche questa onorevole corte sarà dimenticata, totalmente dimenticata. I nomi di tutti quanti siamo qui oggi saranno spazzati via dalla faccia della terra, né saranno ricordati, né nominati ancora. I nostri destini saranno cancellati“. Knut ha “la coscienza più pura del mondo”: nelle intenzioni e nel cuore sentiva di aver lottato per una grande Norvegia: cosciente del fallimento, si consegna ai vincitori. È un autentico sconfitto: si sente chiamare traditore ma non sente d’aver tradito. Eppure, lascia correre. Indifferente, apparentemente (abulico?).

 

Tre anni di prigionia e di internamento per un vecchio letterato sordo e stremato: arresti domiciliari nel 1945, quindi trasferimento all’ospedale di Grimstad: non poteva leggere giornali, per decisione della polizia, e poteva solo leggere i miseri lasciti libreschi custoditi in un armadio. Per un uomo che era vissuto di parole, forse la punizione più assurda e allucinante.

Dall’ospedale all’ospizio: dall’ospizio alla clinica psichiatrica (dove, pur entrato sano, viene dimesso vittima d’una terribile depressione), infine ritorno all’ospizio. Tre anni, tra 1945 e 1948, di indiscutibile umiliazione: sopraffatto dall’odio e dal disprezzo d’una intera popolazione, Hamsun conta sull’episodica solidarietà di qualche ammiratore e di uno stravagante prete. È vivo nell’orgoglio e nella stanchezza: torna a riflettere sul suo passato, accenna alla sua rinnegata e censurata passione per la poesia, ai suoi viaggi oltreoceano, alla sua fortuna letteraria internazionale. È, obiettivamente, un povero vecchio: sconfitto, sfinito, disfatto. Triste epilogo della vicenda d’uno scrittore geniale, che si affidò, per chissà quali assurde illusioni e forse in onore a una tracimante ambizione, a un’ideologia assassina. È innegabile che il trattamento inumano ricevuto nel triennio narrato in queste pagine sia valso come irrichiesta permanenza in un girone dantesco: sarebbe opportuno, adesso, restituire luce, onore e merito a un grande scrittore che ha commesso un tragico errore. Hamsun deve essere ricordato come il genio di “Fame”: non certo come il collaborazionista e il traditore. Altrimenti, s’oltraggia la letteratura. Questo suo libro è giusto che rimanga nel patrimonio culturale della Norvegia, come cicatrice indelebile d’una tragica epoca storica e come testimonianza di atroci ingiustizie: commesse da chi aveva creduto, pur in buona fede, nel Male, e da chi, per estirpare quel Male, non ha esitato a strappare tutta l’erba che cresceva per i sentieri. Senza pietà.

Il resto della produzione letteraria di Hamsun, invece, appartiene all’umanità tutta: nostro primo tesoro nel nuovo secolo, nostra guida, nostro esempio.

Un artista non è mai un uomo politico. Nessuno nutre dubbi in proposito.

Solo all’arte, e solo agli uomini appartiene. In eterno.

 

Uomo, è a te che sto pensando. Di tutto ciò che vive al mondo, solo tu sei nato senza un motivo, o quasi. Non sei né buono né cattivo, sei stato creato senza uno scopo meditato. Vieni dalla nebbia e tornerai nella nebbia, tanto grande è la tua imperfezione. E, uomo, se monti un destriero raro, non c’è niente che lo faccia più raro. Tienti forte perciò, lungo la strada e lungo i giorni, pian piano. (…)Proprio ora dal sottosuolo sta sorgendo in un turbine una generazione nuova e piena di speranze. È così giovane e innocente, posso leggere qualcosa su di essa, ma non conosco alcun nome, e fa lo stesso. Sono tutti come lampade di viandanti: compaiono, brillano un po’ e svaniscono. Vengono e vanno, come me” (Knut Hamsun, “Per i sentieri dove cresce l’erba”).

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

 

Knut Pedersen, alias Hamsun (Garmostræde, presso Lom, Gulbrandsdal, Norvegia 1859 – Nørholm, Grimstad, 1952), romanziere, poeta e drammaturgo norvegese, autodidatta. Premio Nobel per la Letteratura 1920.

 

Hamsun visse sino in fondo l’avventura del ribelle – scrive Magrische si abbandona al respiro vitale, negando qualsiasi valore aldilà della vita stessa e scoprendo perciò alla fine il suo irrazionale nichilismo, anche se mitigò tale vitalismo con una gentile e perduta poesia delle lontananze dell’anima. Volle sottrarsi all’anonima pressione della società moderna e finì per diventare l’apologeta del suo volto peggiore: passò dalle simpatie anarchico-socialiste della sua gioventù di proletario disoccupato, negli ultimi anni del secolo scorso, al collaborazionismo con l’occupatore nazista della sua Norvegia, che trascinò nel fango la sua tardissima e indomita vecchiezza“.

 

Knut Hamsun, “Per i sentieri dove cresce l’erba”, Fazi, Roma, 1995.

Traduzione di Maria Valeria D’Avino.

Toccante e umanissima introduzione di Filippo La Porta.

 

Titolo originale: “På giengrodde stier”, 1948.

 

Approfondimento in rete:

Pegasos.

Nordland.

Iperborea.

Odin.

Lars Frode Larsen.

Knut Hamsun Online.

 

Bibliografia critica consigliata: fondamentali le pagine di Claudio Magris: “Fra le crepe dell’io”, in “L’anello di Clarisse”, Einaudi, Torino, 1984.

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