Almeno due peculiarità nella poesia di M.T. Ciammaruconi si colgono subito: la vocazione all’oralità e l’estro e ricchezza perseverante dell’impasto linguistico che si eleva dalla lingua madre-dialetto agli apici del più culto rimando alla tradizione classica, trattenendo nel mezzo tutta la smagliante fantasmagoria della parola.
Tutti i lettori e gli esegeti gliene riconoscono il merito.
Già il tambureggiare del verso, sincopato quasi sul battito cardiaco, svela la funzione multimediale che è stata assegnata a quest’opera dall’autrice, che ama la contaminazione dei linguaggi artistici e nella circostanza ci regala un recitativo pulsante e sontuoso che rimanda alla cultura popolare, ossia a ballate, cantastorie, scioglilingua, timpani, sagre paesane, fin quasi ai parossismi di talune suggestionanti cerimonie locali, segnando accuratamente con la lunghezza del verso e le spaziature all’interno dove la voce si deve frangere.
Multimedialità, insomma, è intesa qui in una poesia come canto o almeno votata all’accompagnamento ritmico e musicale, per una fruizione senza dubbio corale.
Più laborioso è seguire l’autrice nel tragitto alle radici della sua cultura, dove appunto ritroviamo le fasi dei riti popolari, la statuaria talora persino bizzarra come quella della Madonna con la spada, le processioni col seguito di tipiche suppliche alla protezione del cielo contro le avversità.
La terra del sud è territorio di conquiste e indigenze, ma l’umanità che ne viene fuori conserva una religiosità serena e innocente ma non superficiale, mentre si specchia nel mare alla ricerca delle impossibili risposte ai quesiti che tramano la vicenda umana.
A lui fanno domande/e quello risponde nella lingua di Gea.
Quando si torna indietro è in genere per nostalgia o per ricerca di identità, impigliata nel suolo che per primo ci accoglie, ma a volte indica, come in questo caso, anche una discesa al nucleo primordiale dove trovare le origini di tutti i sensi del mondo, dove ci sono le cose che nessuno ha nominato mai.
Qui la madre-matrice conquista tutti i suoi significati, indicando quella che genera dal suo grembo, quella magnifica e impetuosa che sostiene sulla sua crosta subito dopo e perfino la mater dolorosa che porta il peso del dolore e delle forme scomposte del tempo umano del cuore.
Nel luogo di tutti gli archetipi, la regressione è anche indicazione di poetica. Sull’asse che da Vico passa per Leopardi e Pascoli, per la poetessa la poesia è alle origini della storia, almeno in quel punto ancora salvaguardato dalle corruzioni della società cosiddetta civilizzata, prima del Leviatano, prima che Adorno potesse scrivere che dopo Auschwitz non è più possibile la poesia, in una sorta di stato di natura alla Rousseau.
L’indicazione è a una poesia immediata e intuitiva, inadatta ad attraversare l’intelletto –almeno nei buoni propositi dell’autrice- perché diventi effettivamente rivelatrice.
Ci piacerebbe guardarla bella nel gesto/ che confonde dottrine dottori e cuore…per bere/ il segreto raccolto nel vagito.
La risposta che trova non consola.
Dictum non intelligendum est.
Oppure :
Le parole perdono il corpo delle cose.
Allo stesso modo ogni forma di conoscenza, –l’intendere umano che crescendo torna all’eterna estate dei fanciulli– come leggiamo nelle traversie di Gioacchino da Fiore, non è frutto di un cammino razionale che porti a svelare le funzioni e le finalità della res extensa, ma si esaurisce in un rapporto intuitivo e partecipante con il reale, vale a dire nella contemplazione, in una sorta di panteismo che ci rimanda a Spinoza.
Le orme si corrispondono / in signorum coincidentia divina.
Ma l’intelletto scacciato come mezzo della conoscenza e del fare poesia ritorna con l’armamentario sublime e dannato del dubbio, inseparabile e conturbante compagno di strada, soprattutto quando appare evidente la fragilità del tratto che vorrebbe nominare ancora le cose, la misera parola che non basta a svelare i misteri della terra e neanche quelli del cuore. Allora la C. si affanna a implorare l’elemosina di una frase compita/ una chiosa ritmata un segmento/che ci regali la misura del segno/ il dove del prima e del dopo la chiave.
La conclusione, come si vede, non lascia adito a nessuna speranza:
Nel bianco di questo spazio affollati
affannati e fame di tramontana nei pensieri
abbiamo brancolato sgomitando
smozzicando parole e pagine imbrattate
brandelli di fuliggine e malìa
abbiamo scavato tra le sconnessure
l’incrocio giusto che non sia solo incastro
o crosta di ferita che non sia
calamita di vuoti coincidenti.
Quesiti pesanti s’insinuano dunque nella sensibilità dell’autrice, che tuttavia conserva un tono antiretorico e antilirico con l’emozione sempre imbrigliata pur nella vasta e vibrante coreografia che ci propone.
Sembra quasi che la C. voglia coprire il suo universo poetico e passionale, oltre che quello fisico, di strati di lemmi e definizioni perché si facciano annunciatori di una realtà che sfugge alla catalogazione Seguiamo pertanto l’intreccio semantico di neologismi, assonanze, parole pronte a incatenarsi in allitterazione alle vicine, barbarismi e neologismi in una sorta di filastrocca continua che indica una padronanza della materia lessicale di alto livello, che lascia intuire quasi una lotta tra l’artista e la materia della sua arte, adatta di quando in quando a configurarsi come sperimentalismo.
A questo proposito si rimanda al poemetto sull’acqua, come il mare metafora plurima, definita nelle sue caratteristiche fisiche e chimiche, quasi per circoscriverne un temuto sbandamento semantico, ma persino morfologico.
La contraddizione è palese. La poesia ammantata in questo modo può solo indicare l’inganno del panlogismo nel senso che la ragione del tutto è inaccessibile e soprattutto impronunciabile, col rischio di condannare anche se medesima, dopo la corsa a perdifiato tra i sintagmi, coerentemente all’afasia.
Roma, 27 aprile 2007