ISTANTANEE DI UN’INQUIETUDINE
Il genus-letteratura di viaggio è molto radicato nella narrativa italiana. Prova ne sia la vittoria, un paio d’edizioni fa, del Premio Strega da parte di un suo cultore: Maurizio Maggiani.
La biografia di Giano viaggiatore è à la Pukin, ovvero preceduta dall’artifizio letterario del rinvenimento della stessa. Stavolta però l’ “avvertenza” non è premessa dall’ “editore”, bensì dallo “scrittore-biografo”. La cui inventio è dovuta ad un incontro, ad una sincronia nata dal dialogo diretto, quasi trobadorico, tra i due personaggi della fictio: il Viaggiatore ed il suo Biografo, appunto. Tanto che vien fatto di chiedersi se Giano non sia un Selkirk dei nostri giorni. Ma il ponte letterario Pukin-Defoe è troppo intrigante per cercare la soluzione dell’arcano: il fascino del viaggio è anche infra letterario…
“Quando vivi a stretto contatto con un oggetto d’amore, fuso con lui, il tuo occhio vede una totalità rarefatta e non può lo stesso occhio tornare tempo dopo come un giudice a tagliare e cucire, dividere e smembrare… solo un altro lo può fare” (pag.10)
Anche in questo sta la modernità del narrare di Franco Romanò, che salda i classici contenuti descrittivo-paesaggistici del genere con un’introspezione che restituisce gli stessi esistenzialmente rimodulati, pregni di partecipazione emotiva che va oltre Chatwin, che pure fu cultore del Viaggio-Discovery.
L’andare-oltre di Franco Romanò si concreta nel tentativo sincretico di cercare ciò che unisce i paradigmi socioeconomici di Oriente ed Occidente, passando per le rotte afro-caraibiche, che lo fanno lungamente approdare a Cuba.
Il giro del mondo diventa dunque giro dell’anima, regalandoci istantanee cariche di struggimento; come nel caso della povera storpia di una Stettino dilaniata nella schizofrenia linguistica del chiamarsi alla tedesca od alla polacca.
Od anche rimeditazioni affascinanti sul modus di coniugare le coordinate spazio-temporali del Vivere, come un tempo fecero i Portoghesi con la loro Incruenta Corrida e coll’andar per mare; come ancora fanno le tribù di un affascianate Lesotho, dove la forte escursione termica determina un divario giorno-notte compensato con un modo preindustriale di vivere modalità e tempi di lavoro, dunque di socialità.
Od ancora: l’impossibilità di intessere una duratura relazione d’amore tra l’In-dividuo occidentale e l’Antigua (nomina sunt consequentia rerum!) Cubana, pregna di una concezione di socialità tutt’affatto comunitarista, fondata sulla famiglia patriarcale allargata, da cinquant’anni in occidente soppiantata dalla famiglia – sempre patriarcale – ma atomizzata nel modello coniugi-figliolanza, peraltro sempre meno appetito.
Infine, un’affascinante ipotesi sul ruolo degli arabi nella trasmissione del sapere, posta non a caso a fine libro, propone ulteriori spunti di riflessione, che potrebbero regalare un altro punto di vista sul rinato spirito-di-crociata che funesta il ventunesimo secolo.
Mettersi in discussione continua, però, ha un suo prezzo: lo stare sospesi tra due paradigmi socio-psico-economici lontanissimi nel tempo, ma riattualizzati dalla topica schizofrenia cui adducono chi vive entro di essi, senza scegliere fra i due: il Cerchio della Grecità e la Linearità dell’éskaton giudaico-cristiano.
Ambedue i paradigmi trovano un’acconcia personificazione: Achille e Scipio, i due figli di Sfinge.
Ma Sfinge diventa Sibilla, per Giano, il cui ibis redibis non, sed mories in bello si “risolve” così:
Nelle piante Giano cominciò a vedere dei possibili sosia, forme che mutavano pur stando ferme, mentre lui si muoveva continuamente, cercando a ogni ritorno di concretare una forma diversa (pag.9).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Franco Romanò, saggista, romanziere e poeta italiano. Co-dirige (assieme a Maria Caldei) la rivista “Il cavallo di Cavalcanti”. Ha esordito in narrativa nel 1996, ed il successivo romanzo “Lenti a distacco” (ExCogita editrice, Milano, 2003) è stato segnalato al premio “Sulle orme di Ada Negri).
Franco Romanò “Sguardo di transito”, Azimut, Roma, 2005.