Qual’è il problema?
Che Arthur Phillips, autore osannato dalla critica, promettente leva della scuola letteraria statuninense, già autore di un Bestseller tradotto in sette lingue, dal titolo Praga, ha ricevuto per questo suo lavoro, veramente inestimabile, consensi e plausi dagli addetti ai lavori, e una tiepida accolglienza, condita da un vago senso di delusione, da parte dei lettori.
Perché?
Semplicissimo: perché la campagna pubblicitaria che ha anticipato l’uscita del libro ha fatto, erroneamente, credere ai lettori di trovarsi davanti a un novello Dan Brown, a un epigono dei tanto acclamati bestsellers di ultimissima generazione americana, cosa che invece assolutamente non era. E meno male.
Ecco che allora si torna a quello che ho sempre cercato di sostenere.
Mai assaporare un libro dopo aver letto la prefazione, la postfazione e la recensione di Tizio, Caio e Sempronio. Che, per carità, magari animati, come sempre, dalle migliori intenzioni, sicuramente hanno fatto di tutto per presentarci l’autore sotto la giusta luce, ma, al tempo stesso, hanno anche, invariabilmente, causato in noi aspettative e pregustazioni, suggestioni e persuasioni, idee e preconcetti, a volte, come abbiamo visto, totalmente fuorvianti.
Bisogna, o meglio bisognerebbe, perché non è sempre facile, arrivare a un libro totalmente vergini, per poter essere in grado di giudicare un’opera da soli, col proprio gusto, intelletto e propensione, cosa che un lettore evoluto è sempre in grado di fare.
Io, personalmente, leggo sempre le prefazioni per ultime, dopo il termine del romanzo, dopo la degustazione del suo contenuto, e dopo la lettura dei ringraziamenti e considerazioni varie dell’autore, e perfino dopo la biografia.
Quando leggo, io, non voglio sapere niente.
Sono, se volete, una creatura ingenua, ma preferirei leggere Stephen King senza sapere che è Stephen King, o assaporare Flaubert pensando che sia, magari, un giovane esordiente sconosciuto… e magari avercene, di esordienti che somigliano a Flaubert.
Però, quando mi sono accinta a scrivere la recensione di un libro tanto controverso, mi sono data uno sguardo in giro per vedere che accoglienza aveva avuto questo romanzo nell’ambiente, sono rimasta sbalordita.
Perchè, Vi prego di crederlo, questo romanzo mi ha letteralmente catturato e secondo me rappresenta, in trasposizione moderna, la chiave di volta del Mistery inteso nella maniera classica, quando ancora il giallo era un rompicapo e una sfida avvincente tra autore e lettore.
Quando ho comprato questo libro mi aspettavo di leggere uno dei libri + belli di quelli che ho letto. Invece è stato uno dei + brutti.
Un libro pessimo.
Attenzione a non farsi ipnotizzare dalla pubblicità, che ha riempito le nostre radio proponendoci un libro entusiasmante, tutt’altro.
Ottimo da leggere ai bambini per farli addormentare (a meno che non ci addormentassimo prima noi).
Scegliete di leggere altri libri, pochi vi deluderanno di più.
La storia è buona, peccato che il racconto non risulti fluido e scorrevole per colpa dell’intricato stile/metodo di narrazione (corrispondenza, diario, narrazione diretta) che l’autore ha voluto utilizzare, appesantendone la storia che comunque evidenzia grossolani difetti: si intuisce facilmente la storia ed il finale direi è pessimo.
Un libro noiosissimo di difficile lettura e comprensione che conciglia il sonno. Ho imparato a non fidarmi della pubblicita’ che fanno di un libro. Veramente pessimo!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Questi i commenti, integralmente riportati, che più o meno, sotto variate forme, sono apparsi sul Web a proposito de L’Archeologo.
Come potete vedere l’aggettivo che più volte ricorre è “pessimo”.
Per quanto possa attribuire alle nuove generazione un certo gusto dissacratorio, e magari una sete e una ricerca di un tipo di letteratura meno artistica e più agghiacciante, condita se del caso da un tantino di pathos, unito all’eros e all’immancabile tanathos, ammesso che i giovani sappiano cosa ciò voglia dire, io, che non sono davvero un recensore di primo pelo, sono entrata da pochissimo negli “anta”, e dunque non mi posso ancora definire “vetusta”, e sono di gran lunga il lettore più “onnivoro” che io conosca, avrei esitato, e molto, prima di definire “pessimo” qualsiasi libro, ma mai mi sarebbe venuto in mente, neppure alla lontana, di concepire un simile aggettivo per “questo” libro.
Mi rimane da pensare, mio malgrado, che il problema de “L’Archeologo” risieda proprio nella sua perfezione.
È un gioco di società talmente raffinato ed evoluto, un marchigegno cinese ad orologeria di tale squisita fattura, una sfida intellettuale così sofisticata che, ad una lettera disattenta, vorace e troppo dinamica, la sua finitezza rischia di sfuggire.
E infatti sfugge.
Al lettore veloce, al vorace, al divoratore di parole. Ma ricordiamoci sempre che le parole prima che parole sono lettere, poi parole, dopo pagine, infine paragrafi, successivamente pagine, indi capitoli, e, solo in ultimo, un libro.
Se non si guarda l’opera nel suo insieme, questo meccanismo, perfetto, ad incastro, questa pregevole bambolina Matrioska, che al suo interno contiene altre bamboline sempre più piccole, sembra quasi piatto, atrofico, disadattato, una creatura incompiuta, o quanto meno venuta male.
Io, invece, mi sono avvicinata a questo libro in maniera totalmente inedita.
Incredibile ma vero, l’ho pescato a caso in una bancarella, mentre cercavo dei testi per documentarmi sugli scavi archeologici, ho visto che era un romanzo e non un saggio ma, mi sono detta, quale occasione migliore per sapere come si svolge quotidianamente la vita in un sito di ricerca nel deserto?
Ho cominciato a leggere, come mia abitudine senza guardare niente, né la casa editrice, né l’anno di produzione, né il nome dell’autore.
E sono stata rapita, da un incantatore di serpenti, da un mago, da un prestigiatore, da uno che sa come muovere i suoi fili, come schermare le scene, come smuovere i veli.
La prima cosa che ho pensato, è stata, è un libro vecchio, del 1930, forse, del 1950, lo stile è così antico, aulico, il linguaggio tanto ben ricreato da richiamare alla mente, fortemente, il celebre Il Mondo Perduto o Cento Giorni sull’Altipiano, del grande Conan Doyle, altro genio indiscusso che dedicò al Mistery quota parte del suo ingegno, e la parte rimanente al Fantasy.
Cento giorni sull’altipiano parla di uno spiantato di buona famiglia, che va a corteggiare una donna leggermente superiore alle sue possibilità, e si sente richiedere, per essere amato, ardimento, fama e successo, e solo per questo parte in un viaggio avventuroso, ai confini del mondo, diventando poi, da essere mediocre, un invincibile eroe.
Questa prima, parte, tutta, mi ha portato a paragonare Ralph Trillipush a Edward Dunn Malone , e Phillips a Conan Doyle.
Poi ho visto la data di edizione, e mi sono detta, no ho sbagliato, il libro è recente, allora, ho pensato, deve averlo scritto un vecchio, un uomo di una volta, un gentiluomo in pensione, invece no, l’autore è a mala pena quarantenne.
Infine ho concluso, chiunque egli sia, per avermi saputo trarre in inganno così bene, non solo con l’ambientazione, perché l’autore come Salgari non è mai stato nei paesi che ha descritto, ma anche con lo stile, con il linguaggio, con la riproduzione della mentalità ristretta di un’epoca che fu, deve essere un genio.
E solo allora ho voluto sapere chi era, e ho saputo. Ho saputo che i lettori sono rimasti delusi. Ma da cosa?
Da un romanzo raro, che usa i meccanismi letterari come si faceva una volta, per stupire sottilmente, per argomentare, per costruire la storia su piani paralleli che, uno alla volta, si smentiscono e si sdoppiano, si sovrappongo e si confondono, per utilizzare i personaggi come agenti segreti che spiano, indagano, controllano e rivelano ma alla fine fanno solo quello che chiunque di noi compie nella realtà.
Mostrare a se stessi e al mondo la loro versione, personalissima, dei fatti.
Dunque L’Archeologo non è, graditissima sorpresa, un Trhiller, né un Romanzo Storico, e nemmeno un Giallo in senso stretto, ma è decisamente un Mistery della più pura acqua, un Mistery classico, intricatissimo e sofisticato, avvincente come un Giallo, documentato come un Romanzo Storico, e spasmodico come un Trhiller.
In una corsa senza tregua tra Boston, Egitto e Sidney, giocato su due piani temporali, tra il 1922 e il 1954, protagonisti un sedicente archeologo, un falso finanziatore, un rampollo scomparso, un’avvenente ereditiera e un misterioso faraone, apocrifo, della tredicesima dinastia., il romanzo si snoda sottile e avvincente come le spire di un serpente, incantantatore e con tanto di sonagli.
Sullo sfondo le atmosfere suggestive di un’epoca antica, quando le fortune cambiavano facilmente di mano, quando i nuovi ricchi si affacciavano appena, arroganti e spavaldi, sulla scena sociale, quando giovani ereditiere venivano conquistate alla vecchia maniera, fatte oggetto di una corte antiquata, tenute al riparo da preoccupazioni e adempimenti economici o burocratici, quando le scoperte archeologiche erano poco più che uno sport per pochi nobili eccentrici.
Il deserto, l’Egitto, i cartigli, i geroglifici, le piramidi, si intrecciano con le scoperte reali di un archelogo, in carne e ossa questa volta, Howard Carter, e la storia avvincente di un faraone ragazzo, morto e sepolto in uno dei sacrari meglio conservati e completi mai rinvenuti in ogni epoca e tempo.
Su tutto questo troneggia un sedicente faraone, Athum-Adu, la cui tangibilità storica, come spesso accade anche nella realtà, è sempre stata avversata dagli studiosi ufficiali, che dubitano della la sua storia, della sua autoinvestitura, della sua filosofia di vita, delle sue poesie erotiche, della sua eterea e nobile promessa sposa, del suo maestro, protettore e finanziatore, il benefico Maestro di Abbandonanza, e perfino della sua stessa esistenza.
La narrazione si sviluppa, avvincente e intrigante, tra false piste e doppie prospettive, in un alternarsi serrato di diari, confessioni, testimonianze, lettere e appunti di viaggio, prefazioni a una quanto mai sopravvalutata e futuristica opera di commemorazione tra i quali l’autore semina, a beneficio del lettore, briciole di indizi.
E se il lettore ha mai masticato un minimo di Agatha Christie, di Ellery Queen, o di Rex Stout, arriverà dove deve arrivare, cioè alla risoluzione, appagante e soddisfacente, di un intricatissimo enigma, dalle molte facce poliedriche, ma, come il miglior alibi, a prova di bomba.
Purtroppo però i destinatari “principe” di questo raffinatissimo lavoro di cesello non sono i lettori distratti, i divoratori di bestsellers, gli estimatori del Trhiller all’Americana, ma piuttosto i consolidati amanti della “vera” letteratura, quella che sa giocare di cappa e di spada, di onice e martello, di filo e fioretto, per costruire, letteralmente uno splendido arabesco.
Un sofisticato meccanismo ad orologeria funzionante ed estetico al tempo stesso, un compiacimento non solo per la mente, chiamata a competere in una stimolante sfida, ma anche per l’occhio, che si potrà solo gratificare di una confezione tanto elegante, perfino infiocchettata, che spicca tra gli scaffali di una libreria come spicca un albatros in mezzo ai gabbiani.
Nel libro di Phillips ad ogni pagina che si volta, si cambia orizzonte, le cose mutano di prospettiva e le certezze fino ad allora raggiunte risultano capovolte.
Ed è per questo che lo consiglio, caldamente, anche agli autori esordienti, perché lo leggano e lo studino, non già come un romanzo piacevole e avvincente, ma piuttosto come un vero e proprio libro di testo, per imparare, a puntino, la sottile arte dell’inganno, che letterarialmente parlando, se ben congegnato, è sempre consentito, anzi, vivamente raccomandato.