La poetica estrema di Werner Herzog, trova nel documentario una dimensione ideale, fatta di ossessioni e tematiche ricorrenti, all’interno delle quali il sessantaquattrenne regista tedesco costruisce la sua personalissima visione dell’uomo e della natura. Artista bizzarro e fuori dagli schemi è riuscito sin dal suo esordio – avvenuto nel 1962 con “Herakles” – e con maggiore evidenza dal 1967 con la pellicola “Signs of Life” a portare avanti un’idea di cinema libera da qualsiasi etichetta o semplificazione, capace di sfruttare le potenzialità del documentario per riflettere sui differenti livelli di verità. Emmanuel Carrère, nel suo libro su Herzog del 1982, descriveva il regista come una figura complessa profondamente immersa nel passato, non anti-modernista ma, in un certo senso, romantica sempre alla ricerca di paesaggi e storie capaci di definire con precisione la condizione umana. Pur appartenendo, almeno cronologicamente, a quel nutrito gruppo di registi – Fassbinder, Reitz, Syberberg, Kluge per citare i nomi più conosciuti – che tra gli anni ’60 e ’70 rivoluzionò il panorama cinematografico tedesco, Herzog appare sin dal suo esordio una figura isolata e particolare divisa tra cinema e documentario ma sempre e comunque orientata all’utilizzo di un linguaggio struggente, mistico e visionario. Allergico ad ogni tipo di sentimentalismo gratuito, Herzog osserva l’uomo per evidenziarne la natura corrotta; consapevole di questa situazione insuperabile non rinuncia alla rappresentazione dell’imperfezione innata dell’uomo, che in alcuni casi raggiunge le vette sublimi della follia. A tutto questo si aggiunge la rappresentazione herzoghiana del paesaggio, analizzato in tutta la sua travolgente forza romantica, palcoscenico perfetto su cui far muovere personaggi eroici e inquieti. Quella di Herzog non è una ricerca del bello, ma un’esplorazione consapevole del sublime, scovato nei suoi aspetti più inaccessibili. Tra uomo e natura si instaura, così, uno scontro titanico, in cui arte e vita si intrecciano indissolubilmente definendo una realtà che non ha timore di mostrare la sua anima più dolente e malinconica. Costantemente alla ricerca di un metodo efficace per rappresentare la vera essenza dell’uomo, Herzog diventa l’artefice perfetto di un cinema rigoroso, che rifugge dal concetto di normalità per raccontare un umanità solitaria, portatrice di antichi rituali, magari vicina all’estinzione. L’aspetto più affascinante del suo cinema è l’attrazione quasi patologica nei confronti del pericolo; spingersi oltre i limiti più estremi significa, per il regista, registrare frammenti di civiltà lontane per raccontare storie che rifuggono dall’ordinario. Il documentario del 1970 “Fata Morgana” è immerso in un’atmosfera fortemente poetica e sperimentale, in cui il regista propone una visione molto meditata del deserto del Sahara. Herzog e il suo fidato direttore della fotografia Schmidt-Reitwein, raccontano la propria tormentata odissea, nella quale le sofferenze fisiche e psicologiche sono funzionali alla rappresentazione di un paesaggio onirico e allucinato, attraversato da rigurgiti di violenza e abitato da figure singolari. Lo sguardo atrocemente delicato del “Paese del silenzio e dell’oscurità” (1970-71), ci conduce nel mondo dei sordo-ciechi mostrato attraverso la figura “eroica” di Fini Straubinger. Herzog si immerge totalmente nell’universo estremo dei suoi protagonisti per carpire i segreti della loro profondità percettiva; ne esce un ritratto straziante e carico di umanità dal quale traspare con grande sincerità l’affinità tra il regista e i protagonisti della pellicola. Si parla ancora di situazioni estreme nel film del 1973-74 “La grande estasi dell’intagliatore Steiner”, rappresentazione romantica di un altro eroe herzoghiano. Steiner è un campione di salto con gli sci ma anche un intagliatore di legno, che mette in pericolo la sua vita spingendosi oltre i limiti del possibile. Il regista è una presenza costante del film e contribuisce all’evoluzione degli eventi e delle imprese con una partecipazione quasi invadente; la sua voce fuori campo denuncia, anche in questo caso, un’attrazione e un’adesione totale nei confronti del protagonista. Con il documentario “Quanto legno dovrebbe ammassare una marmotta” del 1974, Herzog si trasferisce negli Stati Uniti – e più precisamente a New Holland in Pennsylvania – per seguire il campionato mondiale dei banditori d’asta. La struttura molto semplice del film permette al regista di fare una digressione attenta e precisa sulla comunità Amish, contadini di origine tedesca che rifiutano qualsiasi compromesso con la modernità e la tecnologia. Nel 1976 a causa di una possibile eruzione vulcanica sull’isola di Guadalupe, più di settantamila abitanti furono evacuati; solo un contadino si rifiutò di abbandonare la sua casa conscio del pericolo che stava affrontando ma deciso nella sua tragica scelta: per Herzog era l’occasione perfetta per intraprendere una nuova impresa. Fin da subito lui e i suoi collaboratori si trovarono di fronte a una decisione altrettanto importante: andarsene o girare il film?. Naturalmente tutti decisero di restare, per raccontate lo storia assurda di un povero uomo deciso a sfidare la forza devastante della natura. Il documentario “La soufrière” mostra le vicende di un altro eroe-folle, indugiando con inquadrature spettacolari sull’immagine sublime della montagna minacciosa. L’imminenza di una catastrofe che non avrà luogo, dona al film un’atmosfera inquietante e carica di tensione, aiutata in questo dalle riprese quasi metafisiche della città di Basse-Terre completamente deserta. Il continuo errare del regista alla ricerca di luoghi evocativi lo condusse, nel 1984, nel nordest del Nicaragua per raccontarci le assurde vicende degli indios Miskito ne “La ballata del piccolo soldato”. Alleati dei rivoluzionari Sandinisti contro Somoza, si trovarono, una volta caduta la dittatura, a dover difendere nuovamente la propria libertà e la propria cultura contro il tentativo di omologazione del nuovo governo. Le violenze contro gli indios vengono raccontate dal regista, che concentra il suo sguardo sui volti come espressione sincera della sofferenza di un popolo tradito. Herzog, inoltre, si mostra interessato all’addestramento dei bambini-soldato limitandosi, però, ad osservare con l’intenzione di raccogliere le ultime testimonianze di una tribù destinata a scomparire. Con “La Montagna lucente” del 1984 il regista tedesco tornò a “sfidare” la natura per raccontare l’impresa dell’alpinista italiano Reinhold Messner deciso a scalare – come già aveva fatto nel 1975 insieme a Peter Habeler – il massiccio del Gasherbrum. Herzog seguì la spedizione con la sua telecamera, affrontando innumerevoli e pericolosi imprevisti; straordinarie per intensità le musiche di Florian Fricke e dei Popol Vuh. Il documentario del 1990 “Echi da un impero oscuro” si inserisce tra le riflessioni antropologiche del regista, mettendo in scena una vera e propria inchiesta su Jean Bedel Bokassa, dittatore sanguinario della Repubblica Centroafricana. Ciò che interessa veramente al regista è il lato oscuro della condizione umana, quello presente non solo nei simboli storici del male, ma anche in ognuno di noi. La sottile linea che divide sanità e pazzia viene percorsa da Herzog con spirito analitico tenendo conto della complessità dell’animo umano. Nel 1991 gira “Jag Mandir, l’eccentrico teatro privato del marajiah di Udaipur” vera e propria archiviazione per immagini di una cultura indiana sempre più minacciata dall’ottusa invadenza di quella occidentale. La pellicola del 1992 “Apocalisse nel deserto” si caratterizza per l’utilizzo di inquadrature cariche di lirismo poetico magnificamente sottolineate da una colonna sonora di grande impatto (Verdi, Wagner, Mahler, Prokofieff). Caratterizzato da un’ambientazione infernale, il documentario mostra gli incendi dei pozzi di petrolio in Kuwait. Il regista riesce a costruire inquadrature esteticamente perfette, arrivando persino a toccare i confini della finzione ordinando di riaccendere alcuni pozzi spenti per realizzare immagini ancora più spettacolari. Ma non basta. Nel 1993 Herzog si sposta in Siberia per un’altra delle sue immancabili sfide. Come palcoscenico, questa volta, sceglie il lago ghiacciato di Swetlojar che, secondo un’antica leggenda, nasconde sul fondo delle sue gelide acque un’antica città. Le immagini degli abitanti del luogo che sdraiati per ore sul ghiaccio cercano di percepire il flebile suono proveniente dalle campane della cattedrale, servono al regista per parlare del concetto di fede e di superstizione attraverso le azioni e gli sguardi di un popolo lontano. Il documentario “Campane dal profondo” fa parte di un progetto a episodi che vede la partecipazione di altri cinque registi importanti: Jean-Luc Godard, Lina Wertmuller, Peter Bogdanovich, Nobuhiko Ohbayashi e Ken Russell. Il viaggio in Italia di Herzog risale al 1996, quando con una piccola troupe decise di filmare il castello di Gesualdo, principe di Venosa, compositore di madrigali rinascimentali, figura leggendaria e controversa. Il risultato è “Morte per cinque voci”, ennesima rappresentazione del genio-folle, capace di creare sublimi composizioni musicali ma anche di commettere il duplice omicidio della moglie Maria D’Avalos e del suo amante. Ma è quando incontra personaggi come il pilota Dieter Dengler che il regista riesce a realizzare le sue opere più ispirate. Nel film del 1997 “Il piccolo Dieter vuole volare” Herzog ci racconta la storia di un tedesco che a soli diciotto anni si arruola nella marina americana, viene abbattuto nel 1966 durante una missione in Laos e trascorre sei mesi come prigioniero in condizioni terribili e sottoposto a torture di ogni genere. Giocando ancora una volta con la realtà e la finzione, il maestro tedesco realizza un documentario straordinario, frutto di una elaborazione molto personale di una storia realmente accaduta. Partendo dal presupposto che i suoi film non sono mai veri e propri documentari, inserisce materiale inventato per rendere più visibile la realtà. Il regista torna nella giungla con Dieter, per rivivere tutti quegli avvenimenti che gli hanno sconvolto la vita, ma che ora non sembrano assolutamente turbare questo piccolo e singolare eroe, capace di ricordare senza rabbia un passato oramai lontano. Non poteva dimenticarsi di Klaus Kinski, attore folle e geniale, amico/nemico che Herzog ha diretto nei suoi lungometraggi più famosi (Fitzcarraldo, Aguirre furore di Dio, Nosferatu, Woyzeck, Cobra Verde). Nel documentario “Kinski, il mio nemico più caro”, del 1999, il regista non si allontana dalle tematiche a lui care, dipingendo il ritratto di una figura complessa, molto vicina a tutti quegli eroi-pazzi che da sempre lo hanno affascinato. Attraverso la figura di Kinski, Herzog costruisce una sorta di viaggio nella memoria, malinconico e sentimentale, calpestando nuovamente i luoghi del loro incontro e della loro magnifica avventura cinematografica. Il passato ritorna ancora nel film “Ali di speranza” del 1999. L’antefatto risale alla vigilia di Natale del 1971 quando, aspettando all’aeroporto di Lima di poter raggiungere il set di “Aguirre”, Herzog fu testimone di un terribile incidente aereo che costò la vita a 92 passeggeri e che vide come superstite una sola persona, la diciasettenne tedesca Juliane Koepcke. A distanza di molti anni, il regista racconta la storia di Juliane attraverso la testimonianza diretta della donna, che riuscì a sopravvivere nella giungla per undici giorni, guadagnandosi con le sue poche forze una salvezza insperata. Il coraggio e l’intraprendenza della ragazza vengono usate dal regista per dimostrare, ancora una volta, tutto il fascino e la bellezza dell’impresa titanica. All’interno del nutrito corpus documentaristico herzoghiano esiste una sorta di “trilogia religiosa”, iniziata nel 1999 con “Cristo e i demoni nella nuova Spagna – 2000 anni di Cristianità”, proseguita nel 2001 con “Pellegrinaggio” e terminata nel 2003 con “La ruota del tempo”. Il primo fa parte di una serie di documentari televisivi e partendo dalla scoperta dell’America racconta l’evoluzione del Cristianesimo attraverso le esperienze dei Padri Pellegrini, il secondo mostra una serie di pellegrinaggi in varie parti del mondo per riflettere sul concetto di spiritualità, mentre il terzo riprende parte dei rituali e dei pellegrinaggi buddisti compreso la creazione dei mandala di sabbia con cui i monaci intendono visualizzare la ruota del tempo, fonte necessaria per una corretta meditazione interiore. Tra il 2004 e il 2006 Herzog produce tre capolavori. Con “Il diamante bianco” va in scena l’ennesima rappresentazione di un personaggio eccentrico e visionario; si tratta dell’ingegnere Graham Dorrington che con il suo dirigibile a elio, il “White Diamond”, progetta di recarsi in Guyana per sorvolare la foresta pluviale. Con lui, naturalmente, Werner Herzog deciso a rischiare nuovamente la vita pur di realizzare il suo documentario. Attorno alla figura romantica dell’ingegnere troviamo tutta una serie di figure eccentriche, che contribuiscono ad arricchire l’aspetto poetico e visionario della pellicola. Il lato pessimista e apocalittico della filosofia herzoghiana è rappresentato perfettamente dal film del 2005 “L’ignoto spazio profondo”, sorta di ibrido cinematografico che mescola fiction a immagini e filmati “veri” realizzati dalla Nasa. La storia è narrata in prima persona da un alieno interpretato magnificamente da Brad Dourif che, fuggito dal suo pianeta e giunto sul pianeta terra secoli fa , ha cercato di fondare, inutilmente, una comunità accanto agli umani. Parallelamente a questa storia assistiamo a una missione spaziale terrestre verso altri sistemi solari. Herzog ci consegna una riflessione amara sul possibile futuro del pianeta dominato, oramai, da un’umanità incapace di godere delle bellezze della terra. L’unica speranza, forse, risiede oltre i confini del nostro mondo. Dopo anni di partecipazione silenziosa e devota, Herzog sembra quasi ribellarsi alla violenza spietata della natura con “Grizzly Man” magnifico “docudramma” del 2005 che racconta la tragica vicenda di Timothy Treadwell, personaggio ancora una volta estremo che tra il 1990 e il 2003 trascorse gran parte del suo tempo tra gli orsi dell’Alaska per proteggerli dai bracconieri e finendo per perdere la sua stessa vita sotto gli artigli di quegli animali che voleva salvare. Il regista cerca di portare a galla le ragioni di un ossessione così profonda, scavando nel passato di Treadwell e riuscendo a raggiungere momenti di straordinaria poesia romantica.