Non si sentono le note di Don Raffae’ nel libro Miserere della Dario Flaccovio Editore. Non ci sono descritte scene che possano ricordare Prison Break. La copertina semplice bianca perfetta – che lascia ad una catena il senso del lungo sottotitolo (“Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello Stato”) fa già riflettere – ma “dentro” è peggio. Perché “dentro” a questa lunga biografia romanzata c’è la vita di una persona che si è consacrata ad una missione tutt’altro che facile – missione che l’ha portata dai primi anni ottanta a quel 18 aprile 2003 ad essere responsabile (spesso come direttrice, anzi “direttore”) di carceri di massima sicurezza, in periodi in cui la tensione storica era massima, e le prigioni erano spesso solo un altro terreno di scontro. Solo un luogo in cui, con regole diverse, lo Stato, e chi lo Stato combatteva, si affrontavano senza esclusioni di colpi.
L’autrice dell’opera, Cristina Zagaria, giornalista di Nera per Repubblica, ha avuto il supporto del fratello e degli amici di Armida e quindi è facile supporre che, pure nella trasformazione da cronaca a romanzo biografico, molto sia appena trasposto. E che quindi, quell’opprimente “colore grigio”, quel continuo immaginarsi scene in bianco e nero, che permea buona parte delle trecento pagine del libro, sia veramente l’intorno della vita della protagonista. Sia stato il suo mondo. L’aria che ha respirato per più di vent’anni, che riusciva a diventare più fresca e sana solo a tratti – solo a sprazzi. Come se essere “carceriere”, per Miserere, sia stato una sorta di gioco del contrappasso da cui alla fine ha voluto scappare. Certo, questo SE…
L’Armida Miserere che la Zagaria ci propone non è forse quella che si può scorgere facendo una rapida ricerca in rete, e anche questo ha un senso. Perché il suo lungo cammino, da quando iniziò nel 1984 come vicedirettrice a Parma, a quando terminò tutto – carriera e vita – a Sulmona nel 2003, è stato compiuto tenendo a mente che “non ci si può fidare di nessuno” (o quasi) e che non si possono evitare tutti gli attacchi, tutti i veleni. Se sei in prima linea, sei in prima linea.
Tanto che anche l’episodio tragico e focale della morte (violenta) di Umberto, per Armida, non è certo solo una perdita assoluta di una parte di sè, ma il rimanere – davanti – sapendo che il nemico esiste. Sapendo di non sapere i motivi, i tempi, le ragioni. Sapendo che il nemico ha voce (spesso) e che si sta giocando a scacchi bendati. E che non si può esitare (troppo), non si può cedere, non si può chiudere gli occhi e sperare che tutto passi, che domani le cose che non si gestiscono oggi siano risolte.
Zagaria, con uno stile sobrio e molto efficace, riesce a farci capire questo meccanismo complesso senza dovere ricorrere a nessun artificio letterario eclatante. L’angoscia, la paura, la noia, la disperazione o la rabbia sono proposte, descritte, e poi semplicemente sciacquate via da un cambio di data. Perché la vita, la lotta, continua. E quindi ci sono i carcerati, gli episodi, gli incontri con amici e familiari, e poi i trasferimenti, le lettere, le riflessioni. Ritmate solo dallo scorrere inesorabile degli anni. Dalle morti (anche naturali) e dalla storia che si affaccia sempre appena fuori dalle mura del carcere. Certo, tutto ha il sottofondo dell’assenza, della ricerca della verità, e delle morti (non naturali). Ma quando si arriva alla fine si capisce di non avere compreso veramente tutto. Perché non siamo in un film. E quindi molte strade ci sono e basta. Molte cose semplicemente accadono. E il lieto fine non c’è. Perché non c’è stato. Il libro poteva finire con la scritta “Palermo 1999” – come è finito per Jack e Lea. E invece è arrivato oltre. Un po’ per merito di Armida. Un po’ per caso. E questo, sì, questo lo si capisce. E bene. E’ questo in fondo una parte del grigio. Una parte di quel bianco e nero che si percepisce dalla prima all’ultima pagina, nonostante che tutto accada non negli anni settanta – ma più vicino a noi. Molto vicino a noi.
Un libro, pur nella sua struttura specifica, molto intenso e coinvolgente. Che non ha mai l’occhio di bue sulla vita carceraria o sui detenuti eccellenti (spesso poco più che descritti) ma che riesce lo stesso a mostrarceli, a raccontare. Un libro che evoca un periodo complesso e lungo della storia d’Italia – proponendoci un figura che starà a noi catalogare come martire, eroe o nessuno dei due – e lasciandoci alla fine a riflettere senza quasi sapere su cosa. Perché c’è una guerra (o più d’una) in corso che non siamo in grado di vedere. E che spesso sembra neppure di capire. Almeno fino a quando qualcuno non ci mostra – con la vita – come fare.
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