Ma dobbiamo continuare/ come se/
non avesse senso pensare/ che s’appassisca il mare
Elio Pagliarani
Quale distacco canta Gino Rago?
Innanzi tutto quello dal padre, la cui morte gli ha lasciato sale sulle ferite, poi quello dalle terre che uccidono i poeti, quello dalla stessa poesia, che dopo la morte di Ulisse –sogno, utopia- non trova chi l’accolga, alla fine quello dalla vita.
Da quale parte tira la mia sera?
E qui non rinunciamo a sottolineare la culta memoria di Foscolo.
Rago riporta in primo piano la meditazione sul dolore, furente compagno di strada, la solitudine dell’uomo e la sua in particolare, l’interrogarsi sulla funzione della poesia in un mondo in cui vivi e morti sembrano uguali, tutto espresso con pudore del privato e a voce bassa.
È tema ricorrente quello sull’utilità-inutilità del poeta e della poesia, allorché arde il pianeta e s’interrompe a ogni passo il dialogo fecondo con la luna, ma il pessimismo nulla può di fronte alla devozione e alla vocazione che egli si porta dentro come segno di distinzione ma soprattutto come obbligo.
Il poeta non trova spazi per l’elegia. L’ambizione di mangiare la carta del cosmo si è rivelata illusoria, nel pozzo senza fondo dei misteri, ma egli è rimasto impigliato nella sensibilità che gli permette di cogliere il flusso temporale, la pura gioia dell’invisibile, la grazia ineffabile del viaggio, che conduce ad un altrove, in una specie di miele-maledizione-cicuta: è la sorte del poeta.
Non teme la morte, la tomba dei poeti è nelle nubi, piuttosto il vuoto lasciato nel mondo, di cui neanche un sasso si accorgerà, nell’instancabile riproporsi delle stagioni, quando il tutto imperturbabile scorrerà senza di noi.
Dannazione e salvezza porta il talento, ossia la capacità di leggere oltre il segno del tangibile, dolce conforto di colui che è in grado di intessere legami col filo della storia, coi vivi e coi morti.
Spio la vita/ dalle fenditure/a distanza neutra dagli eventi, / estraneo a me stesso, lontano/dalle formiche prese dal delirio.
Oppure:
Mi muovo lungo mappe/ di bisogni, su geografie/ di schianti e di sconfitte/ perso nel dolore che m’avvinghia.
Il verbo dantesco e il lessico ovunque lussureggiante, sovente tratto da ambito scientifico, danno conto della frequentazione di Rago dei cari compagni di parole dall’ieri all’oggi, molti posti ad epigrafe delle quattro sezione di cui si compone la silloge, o nominati come interlocutori come accade con Mario, di sicuro Luzi.
Prima corrispondente la natura, antileopardiana perché non consola, dura di spade o sciabole d’agavi, neanche paesaggistica come in Cardarelli e Quasimodo, o metafisica come in Montale, di cui pure percorre anguille e limoni, e soprattutto le Occasioni. Al più la natura è anfotera, chiusa in se stessa, se pure parliamo per lo più del paesaggio vigoroso e deflagrante delle terre del sud.
Essa sembra talvolta ergersi più volentieri a pretesto di considerazioni sempre dure sulla vita e il suo carico di dolore.
Di tanto in tanto qualche altro luogo si affaccia, Roma soprattutto, scenario della giovinezza, che torna al suo sguardo col peso della vicenda storica, ma anche questa volta solo all’apparenza l’attenzione di Rago sembra rivolta al di fuori, in realtà ogni segno serve a riportarlo al suo valutare sconsolato e sommesso.
Anche una sosta all’aria/ qui corre lungo il filo della morte.
Tra mummie di foglie cadute e scheletri di alberi spogli in fondo il poeta è solo alla ricerca dell’approdo tranquillo che sciolga il gelo del cuore.
Eleganza formale, rigore e quiete nella poesia di Rago, come nel tanto amato Luzi, in un lavoro di elaborazione ragguardevole, che esprime padronanza e consapevolezza dei mezzi espressivi. Nell’atteggiarsi trasparente del verso si nota quindi il cesello di rime e assonanze. Basti un solo esempio per intendere la fitta rete metrica di cui si avvale, che tuttavia nulla toglie alla limpida collocazione della parola: calore-tepore-dimore-rumori; prosciugato-prato; spogli-voglio-barbaglio-quaglia-soglie; stele-resiste-calpesto; ombre-sventrare-oltraggio- ecc… (Novembre). Parole come pietre.
Appartata e sorprendente la poesia di Gino Rago si sottrae pertanto a celebrate consuetudini minimaliste, per scandagliare gli angoli bui delle vicende umane e lanciare un messaggio sul valore consolatorio della poesia sia per il poeta che sa individuarla in sé e nel mondo sia per chi sa farne tesoro, nella tipica maniera schiva che gli è congeniale, evitando atteggiamenti didascalici e l’enfatica aureola del poeta-vate.
Roma, 19-9-2006