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Emilio Salgari scrisse una ottantina di romanzi e un centinaio di racconti ambientati in luoghi esotici senza esserci mai stato. Aveva una immaginazione fervida che gli consentì di immaginare e descrivere le avventure di Sandokan e la vita dei pirati malesi senza mai essere stato da quelle parti. Ma allora nessuno poteva controllare la veridicità delle sue descrizioni. Invece, oggi, sarebbe opportuno avere conoscenza diretta degli ambienti che si vuole descrivere. Se si va in una discoteca di Rimini, per esempio, si apprende tutto della musica techno, che ha 120 battiti al minuto, delle spremute di canna da zucchero, roba dell’ultima moda, e di quanto costa l’extasy. Insomma, una volta si diceva “O vivi o scrivi”; oggi è consigliabile che uno scrittore (quando non voglia trattare solo di idee, che possono essere forse meglio concepite in solitudine) viva la vita, per poi scriverne.
Una delle ambientazioni più comuni è la città. Può essere anche un agglomerato, borgo, capoluogo, città di provincia, megalopoli, paese, paesello, villaggio, continentale, insulare, marittima, cosmopolita, provinciale, grande, media, piccola, allegra, animata, civile, deserta, fragorosa, caotica, silenziosa, morta, spopolata, commerciale, agricola, illuminata, tetra, industriale.
Si passa quindi a descrivere la parte della città che ci interessa: municipio, archivio, centro commerciale, zona residenziale, trivio, lungofiume, lungomare, periferia, quartiere, contrada, corso, crocicchio, viale, angolo, isolato, discarica, ospedale, manicomio, prefettura, porto, parco, molo, banca, fabbrica, officina biblioteca, sobborghi, galleria, ospizio, stadio, museo.
Se ci sono chiese, edicole, scuole, librerie, grandi magazzini, università, cattedrale, cabine telefoniche, lampioni, cavalcavia, autobus, filobus, rotaie, semafori, isole pedonali, giardinetti, marciapiedi, tunnel, piazze, campielli, poste, giardini zoologici, acquedotti, bastioni, mura, porte, palazzi, grattacieli, caserme, licei, asili, gabinetti pubblici, cinema, caffè, stazioni, gallerie, idranti, monumenti, parcheggi (per assurdo). E se, quasi sicuramente, il traffico è congestonato, la circolazione è lenta, la sosta è vietata e l’espansione è disordinata.
“La cittadina di Verrières può essere considerata una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche, dai tetti aguzzi e dalle tegole rosse, si arrampicano sul declivio di una collina dove macchie di vigorosi castagni mettono in risalto ogni minima sinuosità. Il Doubs scorre a qualche centinaio di piedi sotto le fortificazioni costruite un tempo dagli spagnoli e ora in rovina.
A nord la città è protetta da un’alta montagna, diramazione del Giura. I primi freddi d’ottobre coprono di neve le cime frastagliate del Verra. Un torrente, precipitando dalla montagna, attraversa Verrières prima di gettarsi nel Doubs e mette in moto un gran numero di segherie: industria assai semplice che dà lavoro alla maggior parte degli abitanti, contadini più che borghesi”. (Stendhal: ‘Il rosso e il nero’, Garzanti, Milano, ’88 – pag. 5).
“Le due sorelle percorrevano un sentiero annerito, attraverso un terreno scuro, cosparso di immondizie: alla loro sinistra, si apriva un’ampia veduta, la valle dove si trovavano le miniere, e dalla parte opposta si disegnavano colline coperte di boschi e di campi coltivati a grano, cupi nella distanza, come se si guardassero attraverso un crespo nero. Colonne immobili di fumo bianco e nero salivano e nell’aria grigia avevano un aspetto magico. Poco lungi si stendevano in lunghi filari le case, salivano sul fianco della collina, si stagliavano nette sul margine di essa; case di mattoni rossi anneriti, dai tetti d’ardesia scura. Il sentiero sul quale camminavano le due sorelle era nero anch’esso, tracciato dall’andirivieni dei minatori, diviso dai campi mediante una ringhiera di ferro; il tornichetto che immetteva nuovamente nella strada era lucido per lo strofinio dei pantaloni di fustagno dei minatori. Ora le ragazze camminavano fra file e file di abituri poverissimi; all’angolo di ciascun isolato se ne stavano a scambiare due parole le donne, le braccia incrociate sui rozzi grembiuli, e guardavano passare le sorelle Brangwen con lo sguardo insistente e instancabile che hanno gli aborigeni; i bambini le ingiuriavano”. (David Herbert Lawrence: ‘Donne innamorate’, Mondadori, Milano, ’79 – pag. 9).
“Sul molo di Bombay… compresero subito che nulla, nulla, avrebbe potuto prepararli a quello choc. Una folla a Parigi, a Londra, a Tokyo, è fatta di tanti ometti separati, che corrono ciascuno verso la propria meta. Lì la folla non va da nessuna parte, cola piano in tutte le direzioni, inesauribile, bianca e bruna, riempiendo tutto lo spazio a disposizione tra le ultime carrozze che cascano a pezzi, i carretti tirati da piccoli buoi gibbosi, gli autobus rossi a due piani, le poche auto americane, i cani rognosi che in India rappresentano i paria degli animali, e le vacche, naturalmente, biancastre, altrettanto scarne degli esseri umani, e che occupavano per diritto divino, senza aggressività ma anche senza alcuna gentilezza, i marciapiedi e la carreggiata. E quei milioni di occhi bruni appuntano su di voi lo sguardo dell’India, uno sguardo unico, che è quello dei neonati troppo seri dalle palpebre bordate con un tratto di matita nera, dei vecchi ridotti all’osso, quello delle ragazzine che ti seguono per una giornata intera tendendo la mano, quello delle vacche anche, ovunque lo stesso sguardo, passivo e dolce. In India, l’umanità viene spacciata a metri cubi, nelle botteghe dove si ammassano famiglie intere, accovacciate sugli scaffali assieme alle loro mercanzie, o nelle alte case vittoriane trasformate in conigliere, dove dietro le grate di ogni apertura si vedono brulicare vari strati di corpi ammonticchiati”. (Benoite Groult: ‘Il prezzo delle cose’, Club degli Editori, Milano, ’73 – pag. 151).
“Non è tanto una strada quanto un parco pubblico, lungo e stretto, che, come un affluente, sgorga dallo stabilimento termale alla base della collina, con lieve pendenza scende giù dritto per tutta la città e sfocia nel fiume in prossimità della conceria. I palazzi asburgici che lo fiancheggiano sui due lati sono costruiti secondo un criterio unitario, e così pure le fontane e gli edifici che si susseguono a intervalli regolari al centro della striscia alberata – chiosco per la musica, voliera, museo di storia naturale. Il resto è un’accozzaglia di piccole case rococò a tre piani – incredibilmente mal ridotte- mescolate a casermoni scrostati e a catapecchie. Solo il vialone asburgico, la Promenade, conferisce un certo ordine alla città, dividendola in due parti ugualmente sconclusionate. Le altre strade non hanno né capo né coda: per un po’ vanno avanti in una direzione, poi cambiano idea” (Francesca Duranti: ‘Effetti personali’, Rizzoli, Milano, ’88 – pag. 35).
“Ginevra, che per tutta la vita aveva maledetto come una metropoli di noia, gli appariva bella e piena di avventure… Erano gli ultimi giorni di primavera, faceva caldo, tutte le finestre erano schermate da tende a strisce. Franz raggiunse il parco: al di sopra degli alberi si stagliavano in lontananza le cupole d’oro della chiesa ortodossa, come palle di cannone dorate che una forza invisibile avesse fermato un attimo prima che toccassero terra lasciandole sospese nell’aria”. (Milan Kundera: ‘L’insostenibile leggerezza dell’essere’, Club degli Editori, Milano, ’85 – pag. 91).
Dalla città alla casa, all’abitazione, appartamento, attico, casa a schiera, villa, villino, residence, chalet, algergo, fattoria, gazebo, casale, casa colonica, popolare, nuda, nuova, soleggiata, solida, cadente, spaziosa, trasandata, unifamiliare, lussuosa, ospitale, mansarda.
In: androni, anticamere, ingressi, saloni, salotti, scantinati soggiorni sgabuzzini ripostigli, soppalchi, sottoscala, studi e tinelli, camere, sale, biblioteche, anticamere, cucine, bagni.
Fra: arazzi, parati, quadri, soprammobili, suppellettili, tappeti, tendaggi, letti, arredi, mobili, libri, posate, vasellame, cristallerie.
“Il letto era un monolite, la scrivania era immensa, con il ripiano in cuoio, il tavolino per il caffè aveva la superficie di vetro. C’erano un televisore, un minibar e un ampio armadio, in cui i pochi capi del suo modesto guardaroba sembrarono sperdersi. Staccò degli acini d’uva dal cestino con la frutta, offerto dalla direzione, che era posto sul tavolino da caffè. Accese la radio sulla mensola accanto al letto, e le melodie di Schubert riempirono la stanza. Premette un altro pulsante, e le tende di pizzo, azionate elettricamente, si aprirono con un ronzio per rivelare, come in una inquadratura in cinemascope, giardini progettati da un architetto e un lago artificiale. La stanza da bagno, tutta luccicante di sofisticati impianti idraulici, aveva due lavabi inseriti in qualcosa che pareva proprio marmo, ed era provvista di un corredo di asciugamani in diverse misure, più di quanti lei riuscisse ad immaginare di poter usare”. (David Lodge: ‘Ottimo lavoro, professore!’, Bompiani, Milano,’94 -pag. 258).
“Odore di chiuso, di mozziconi rancidi, i portacenere erano colmi dappertutto, il lavello in cucina pieno di piatti sporchi, la pattumiera ingombra di scatolette sventrate. Su di un ripiano in studio, tre bottiglie di whisky vuote, la quarta conteneva ancora due dita di alcool. Era l’appartamento di qualcuno che vi aveva speso gli ultimo giorni senza uscire, mangiando come veniva, lavorando in modo furioso, da intossicato.
Erano due stanze in tutto, affollate di libri accatastati in ogni angolo, coi piani degli scaffali che si incurvavano sotto il peso. Vidi subito il tavolo con il computer, la stampante, i contenitori dei dischetti”. (Umberto Eco: Il pendolo di Foucault’, Bompiani, Milano, ’88 pag. 26).
C’è stato chi ha dedicato addirittura un romanzo a una casa.
“Carissima Meg, non è come immaginavamo. E’ vecchia e piccola, e nell’insieme deliziosa – in mattoni rossi. C’è appena spazio per noi, e Dio sa che accadrà domani quando arriverà Paul, il figlio minore. Dall’andito si va a destra, in sala da pranzo e, a sinistra, in salotto. L’andito stesso è praticamente una stanza. Apri un’altra porta e trovi le scale che, in una specie di cunicolo, portano al primo piano. Lì tre stanze da letto in fila, e altre tre di sopra, nell’attico. La casa non è tutta qui, ma è tutto quello che si vede- nove finestre sulla facciata del giardino. V’è poi un grandissimo olmo, a sinistra di chi guarda, che si piega un po’ sulla casa e sta al limite tra il giardino e il prato. Io mi sono già innamorata di quest’albero”. (Edward M. Forster: ‘Casa Howard’, Feltrinelli, Milano, ’93 – pag. 15).
Una delle ambientazioni classiche (Odissea) è il mare. Chi meglio di Conrad o Melville possono descrivere il mare?
La sua immobilità.
“Il luccichio del mare mi empì gli occhi. Era sfarzoso e sterile, monotono e senza speranza sotto la vuota curva del cielo. Le vele pendevano immote e flosce, persino le pieghe delle loro superfici allentate non si muovevano più che se fossero scolpite nel granito”. (Joseph Conrad: La linea d’ombra’, Bompiani, ’89 – pag. 93).
La bellezza di una nave.
“… essa era come una di quelle donne d’eccezione, una di quelle creature la cui sola esistenza basta a suscitare un disinteressato piacere. Ci fanno sentire che è bello vivere nel mondo dove esse vivono. Irradiava da lei quell’illusione di vitalità e di personalità che ci affascina nelle più belle opere dell’uomo. Un’enorme trave di legno di teck oscillava sul boccaporto; materia immota, più pesante o più grande in apparenza di ogni altra cosa a bordo. Quando cominciarono ad abbassarla, l’estremità dell’argano mandò un tremito che percorse la nave dalla linea di galleggiamento fino alla formaggetta degli alberi, su per i nervi sottili delle sartie, come se avesse rabbrividito sotto il peso”. (Joseph Conrad: La linea d’ombra’, Bompiani, ’89 – pag. 54).
Ed ecco l’imprevisto.
“D’improvviso – come spiegarlo? Bene, d’improvviso l’oscurità si mutò in acqua. Questa è la sola immagine adeguata. Un pesante acquazzone, un diluvio, viene con gran rumore. Si sente il suo accostarsi sul mare, nell’aria persino, direi. Ma questa volta fu diverso. Senza il preliminare di un bisbiglio o d’un fruscio, senza uno schizzo, e persino senza l’ombra di un urto, mi trovai in un attimo bagnato fradicio”. (Joseph Conrad: La linea d’ombra’, Bompiani, ’89 – pag. 114).
Mi si consenta un paragone: la letteratura è come l’universo, la nave è come un romanzo, una creatura dell’uomo: vi può essere bellezza e completezza in un agile vascello come in una enorme corazzata: sono diverse, ma ognuna può avere la sua anima. Anche un breve racconto, come un oggetto ben fatto, ha la sua poesia.
C’è chi preferisce partire dalla descrizione della natura. Le nuvole, per esempio.
“Monti, lago, sole e uragani erano i miei amici, mi istruivano e mi educavano, e per molto tempo mi furono più vicini e più cari di qualsiasi essere umano, più comprensibili di qualsiasi destino umano. Ma le mie predilette, più care ancora del lago luccicante, degli abeti malinconici e delle rocce calde di sole, erano le nuvole.
Mostratemi nel vasto mondo un uomo che conosca e ami le nuvole più di me! Oppure mostratemi la cosa al mondo più bella di una nuvola! Esse sono gioco e gioia degli occhi, benedizione e dono di Dio, ira e forza ferale. Sono tenere morbide e pacifiche come le anime dei nuovi nati, belle ricche e generose come angeli buoni, scure, inevitabili e spietate come messaggeri della morte. Stanno sospese, argentee e sottili, a tenui strati, veleggiano ridenti, bianche e orlate d’oro, si fermano a riposare, colorandosi di giallo, di rosso e di azzurro. Strisciano lente e sinistre come assassini, passano galoppando a rompicollo come cavalieri impazziti, pendono tristi da altezze incolori come eremiti malinconici, sperduti in un sogno. Hanno la forma di isole di beatitudine e di angeli benedicenti, fanno pensare a mani minacciose, vele sbattute dal vento, uccelli migratori. Stanno fra il cielo di Dio e questa povera terra come simboli bellissimi di tutte le umane nostalgie e appartengono a entrambi, sogni della terra che porge con loro la sua anima macchiata alla purezza del cielo. Sono il simbolo eterno di ogni cammino, di ogni ricerca, di tutti i desideri e le nostalgie del mondo. E come esse pendono esitanti, orgogliose e piene di nostalgia, fra il cielo e la terra, così le anime umane pendono esitanti, orgogliose e piene di nostalgia, fra il tempo e l’eternità”. (Hermann Hesse: ‘Peter Camenzind’, Bompiani, Milano, ’85 – pag. 19).
“… un cielo autunnale carico di radiose nuvole barocche. Le nuvole sono strane: a volte sembrano gigantesche sculture, gonfie di tridimensionalità come quei muscolosi marmi del Bernini che gesticolano a mezza altezza sulle pareti di san Pietro, e altre nuvole, le copie esatte di quelle stesse nuvole, sembrano mere chiazze di vapore, virtualmente inconsistenti. Sono con noi, eppure non ci sono”. (John Updike: ‘La versione di Roger’, Rizzoli, Milano, ’88 – pag. 14).
Ma chi guarda più le nuvole, oggigiorno? Però il brano, si spera, potrebbe indurre a osservare con maggiore attenzione, d’ora in poi, il cielo. Osservare: la più grande dote di uno scrittore.
“Se esci per strada, tutto lavora per te. Non devi fare nulla, soltanto restare in ascolto, aprire gli occhi e camminare. Non c’è bisogno di riflettere. Tutto questo entrerà in quello che scrivi, una volta tornato a casa. A condizione di rendersi indipendenti o di essere indipendenti. Se sei teso o stupido o se nutri delle ambizioni, tutto ciò non approderà a nulla. Se ti butti nella vita, non hai bisogno di aggiungere alcunché. tutto entrerà spontaneamente in te e si ripercuoterà in quello che fai”. (Thomas Bernhard: intervista a ‘Leggere’, settembre ’89).
Anche la campagna, quand’era incontaminata, forniva sempre un buon motivo di riflessione.
“Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione ch’era stata camminare la prima volta per le strade di Genova – ci camminavo nel mezzo e cercavo un po’ d’erba. C’era il porto, questo sì, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo più di saperla”. (Cesare Pavese: ‘La luna e i falò’, Mondadori, Milano, ’70 – pag. 51).
Come anche le piante: felce, fiordaliso, lillà, lavanda, tamerice, agrifoglio camelia, begonia, ficus, bocca di leone, ortensia, oleandro, mughetto, pungitopo, tulipano, verbena, orchidee (Nero Wolf, investigatore privato, famoso personaggio ideato da Rex Stout, coltivava con amorevole cura e passione esagerata le orchidee), piante sempreverdi, bonsai, acquatiche, da appartamento, grasse, aromatiche, albicocco, castagno, olivo, vite, susino, ribes, palma, noce, sorbo, rovo, quercia, platano.
“Isabella aveva odiato quella terra ostile. Se solo avesse cercato di fuggire prima… Ma per andare dove? Dove potevano mai condurre quei sentieri che si diramavano dal castello e subito sparivano fra le gole rocciose del monte Sant’Arcangelo, o fra rovi altissimi e felci e ramaglia, attraverso cui anche le capre faticavano ad aprirsi un varco ? Solo una volta aveva visitato i dintorni del castello, anni addietro, un giorno che i suoi fratelli, in un barlume di pietà, glielo avevano concesso. Aveva attraversato un bosco ricco di agrifogli e di castagni slanciati e aveva inalato l’odore dei funghi e dell’erica. Per una mattinata il luogo le era sembrato gradevole: si era persino riempita d’amore alla vista delle misere case dei pastori, mentre i prati risuonavano dei belati e dei muggiti di bestie pazienti, che si aggiravano fra cardi fioriti e convolvoli, centinodie e piantaggini”. (Giuseppe Cerone: ‘Ombre lucane’, Tencati, Milano, ’95).
La luce.
“… bastava la diversa illuminazione a distruggere l’abitudine che avevo della mia camera… Adesso non la riconoscevo più e ci stavo con inquietudine, come in una camera d’albergo o di chalet nella quale fossi arrivato per la prima volta scendendo dal treno”. (Marcel Proust: ‘Alla ricerca del tempo perduto’, Mondadori, Milano, ’87 – pag. 12).
In genere, la descrizione di una città, o di un altro luogo, cioè l’ambientazione, rappresenta l’attacco, l’avvio di un’opera. Ma è importante anche riuscire a captare subito l’attenzione del lettore. Spesso lo si fa con una citazione.
“Aprile è il più crudele dei mesi”, la citazione Persse McGarrigle la fece silenziosamente a se stesso, osservando attraverso i vetri sporchi la neve fuori stagione che incrostava i prati e le aiuole del campus dell’università di Rummidge. Aveva completato da poco la dissertazione per il suo Master sulla poesia di T.S. Eliot, ma quegli stessi versi d’inizio della ‘Terra desolata’ avrebbero potuto con eguali probabilità passare per la testa a uno qualsiasi degli uomini o delle donne, di varie età, una cinquantina in tutto, che se ne stavano seduti o afflosciati sui sedili allineati nella sala delle conferenze. Tutti infatti conoscevano a menadito quella poesia, dato che erano insegnanti di lingua e letteratura inglese convenuti nel cuore delle Midlands per il loro congresso annuale, e non tutti si stavano divertendo”. (David Lodge: ‘Il professore va al congresso’, Bompiani, Milano, ’93 – pag. 15).
Anche un incontro in treno, con un’analisi dei più minuti dettagli, può portare lontano.
“In una delle vetture di terza classe si trovavano, fin dall’alba, uno di fronte all’altro, e presso il finestrino, due viaggiatori, tutti e due giovani, tutti e due con poco bagaglio, tutti e due poco eleganti, tutti e due con fisionomie assai poco comuni, ed entrambi con un gran desiderio di attaccar discorso… Uno di essi, piccolo di statura, sui ventisett’anni, dai capelli ricci e quasi neri, con occhiettini grigi, ma ardenti, aveva il naso largo e schiacciato e il viso dagli zigomi sporgenti; le sua labbra fini si atteggiavano continuamente ad un sorriso impertinente, beffardo e persino cattivo; ma la sua fronte era alta e ben disegnata e compensava l’ingrata parte inferiore della faccia. Notevole, in quel volto, era soprattutto il pallore cadaverico, che dava alla fisionomia del giovane un aspetto esausto, malgrado egli fosse di complessione assai robusta, come pure un’espressione appassionata fino alla sofferenza, assolutamente discordante con il sorriso grossolano e impertinente e con lo sguardo brusco e presuntuoso. Indossava un’ampia e pesante pelliccia nera, piuttosto ordinaria, foderata, di pelle di montone…” (Fedor Dostoevskij: ‘Lidiota’ Garzanti, Milano, ’82 – pag. 3).
Così come una carrozza.
“Nella carrozzella sedeva un signore non bello ma neppure brutto d’aspetto, né troppo grasso né troppo magro; non si poteva dire che fosse vecchio ma nemmeno che fosse troppo giovane. Il suo arrivo non suscitò nessun rumore in città e non fu accompagnato da alcunché di straordinario; solo due contadini russi, che stavano sulla porta della bettola dirimpetto all’albergo, fecero alcune osservazioni le quali riguardavano del resto più la vettura che colui che vi sedeva dentro. “Guarda!” disse uno di essi all’altro: “Guarda che ruota! Credi tu che quella ruota potrebbe arrivare, all’occorrenza, fino a Mosca, oppure no?” “Ci arriverebbe,” rispose l’altro. “Ma a Kazàn invece non ci arriverebbe, penso”. “A Kazàn non ci arriverebbe,” rispose l’altro. Con questo ebbe fine la conversazione”. (Nikolaj Vasil’evic Gogol’: ‘Le anime morte’, Garzanti, Milano, ’83 – pag. 3).
E, parlando di mezzi di trasporto, non dimentichiamo l’automobile, croce e delizia del nostro presente.
“Una coupé Maserati color bronzo, che fino a quel momento lui aveva visto solo sulle riviste, al prezzo di qualcosa come cinquantamila dollari e oltre, attirò la sua attenzione, ma trascorse qualche istante prima che si rendesse conto che dietro al pararezza fumé c’era Fulvia al volante, che gli faceva cenni frettolosi di montare”. (David Lodge: ‘Il professore va al congresso’, Bompiani, Milano, ’93 – pag. 158).
A volte, l’attacco è intrigante, fatto apposta per coinvolgere il lettore.
“Eccoti qua, cortese lettore, la storia di un notevole periodo della mia vita: e confido che sarà per te, come è stata per me, non solo una storia interessante, ma in qualche modo anche utile e istruttiva. L’ho scritta con questa speranza, e questa sia la mia scusa se son venuto meno a quel delicato, dignitoso riserbo che per lo più ci trattiene dall’esporre in pubblico i nostri errori e le nostre debolezze. Per la sensibilità inglese infatti non c’è nulla di più disgustoso dello spettacolo di un essere umano che impone alla nostra attenzione le sue piaghe, le sue cicatrici morali, e strappa quel ‘pietoso velo’ che il tempo e l’indulgenza verso l’umana debolezza può avere su di esse”. (Thomas de Quincey: ‘Confessioni di un oppiomane’, Einaudi, Torino, ’73 – pag. 3).
Diverso, naturalmente, l’attacco di un racconto del terrore, dove le persone sono appena abbozzate, ma l’attenzione è dedicata all’atmosfera, di solito greve e raccolta, quasi mai solare, e ai subitanei imprevisti.
“Ero a Parigi, una sera tempestosa del 18…, proprio dopo il tramonto, e mi godevo il duplice piacere della meditazione e di una pipa di schiuma, insieme al mio amico C.August Dupin, nella sua piccola biblioteca, o studio… Da circa un’ra rispettavamo il più assoluto silenzio, e agli occhi di un osservatore casuale saremmo sembrati unicamente ed esclusivamente occupati a seguire le ricciolute spire di fumo che saturavano l’atmosfera della stanza. Per quel che mi riguardava, invece, io stavo meditando su alcuni argomenti che avevano costituito motivo di conversazione tra noi due, pochi momenti prima; voglio dire, il caso di via della Morgue e il mistero che riguardava l’assassino di Marie Roget. Mi sembrò una coincidenza strana, pertanto, che la porta dell’appartamento si spalancasse e che davanti a noi comparisse una nostra vecchia conoscenza, il Signor G., prefetto della polizia di Parigi”. (Edgar Allan Poe: ‘Racconti’, Bompiani, Milano, ’91 -La lettera rubata- pag. 54).
“Durante una malinconica, buia, sorda giornata d’autunno, con le nubi che gravavano opprimenti e basse nel cielo, avevo attraversato da solo, a cavallo, un tratto di campagna singolarmente deserto e, alla fine, mi ero ritrovato, al cadere delle ombre notturne, in vista della tetra Casa degli Usher. Non so come accadde ma, al primo sguardo verso la costruzione, un senso di tristezza insopportabile invase il mio spirito”… “Alla richiesta di Usher, lo aiutai personalmente nei preparativi della temporanea inumazione. Dopo che il corpo fu posto nel feretro, noi due soli lo trasportammo fino al luogo del suo riposo”. (Edgar Allan Poe: ‘Racconti’, Bompiani, Milano, ’91 – Il crollo della casa degli Usher- pagg. 143 e 156).
“A che vale raccontare le lunghe, lunghe ore di paura più che mortale, durante le quali contai le incalzanti oscillazioni dell’acciaio! Millimetro dopo millimetro, centimetro dopo centimetro… continuava a scendere giù”… “Con uno sforzo doloroso allungai il braccio sinistro per quanto me lo consentivano le legature, e mi impossessai delle poche briciole che i topi mi avevano lasciato”. (Edgar Allan Poe: ‘Racconti’, Bompiani, Milano, ’91 – Il pozzo e il pendolo – pag. 210).
E c’è chi parte da lontano.
“La prima sensazione che ricordo è di essere sotto qualcosa. Era un tavolo, vedevo la gamba di un tavolo, vedevo le gambe della gente, e un pezzetto di tovaglia che pendeva. Era buio, lì sotto, mi piaceva stare lì sotto. Dovevamo essere in Germania. Dovevo avere uno o due anni. Era il 1922… poi un albero di Natale. Candeline. Ornamenti: uccellini con ramoscelli pieni di bacche nel becco. Una stella. Due grandi che litigavano, urlando. Gente che mangiava, sempre gente che mangiava… Due persone: una più grande, coi capelli ricci, il naso grosso, la bocca larga, le sopracciglia spesse; la persona più grande sembrava sempre arrabbiata, gridava sempre; la più piccola stava zitta, aveva la faccia tonda, pallida, e gli occhi grandi”. (Charles Bukowski: ‘Panino al prosciutto’, Sugarco Edizioni, Milano, ’82 – pag. 7).
Importantissima è l’attenzione dedicata all’alimentazione: serve a creare l’atmosfera giusta a far partecipe il lettore, per il tramite del protagonista, a quella gran parte della nostra vita che si svolge intorno al cibo. Stuzzica il voyerismo e la curiosità di sapere cosa fanno gli altri. I luoghi deputati al cibo e alle bevande sono: autogrill, bar, birreria, caffè, fast-food, gelateria, mensa, paninoteca, piano-bar, pizzeria, rosticceria, ristorante, snack-bar, tavola calda, trattoria.
Il cibo può essere: buono, cattivo, un intruglio, robaccia. E consiste di: affettati, crostini, bruschetta, cocktail d’aragosta, di scampi, caviale, ostriche, salmone affumicato, antipasti di verdura (avocado, insalata capricciosa, insalata russa, peperoni abbrustoliti, pinzimonio, pomodori ripieni, uova in gelatina), fonduta, involtini, paté sottaceti, tartine, torte salate, vitello tonnato, vol-au-vent, minestre asciutte (pastasciutta, pasta al forno, risotto), in brodo (consommé), pancotto, minestrone, passato, ribollita, zuppa giardiniera, agnolotti, capelli d’angelo o capellini, cappelletti, gnocchi polenta, paella, supplì, bucatini, cannelloni, fettuccine, fusilli, lasagne, maccheroni, orecchiette, pappardelle, ravioli, spaghetti, tagliatelle, tagliolini, vermicelli, ziti, tortellini.
Le carni: bianche, rosse, capretto, d’anatra, coniglio, di gallina, di tacchino, agnello, suina, vaccina, coriacea, filacciosa, grassa, frolla, legnosa, magra, tenera, bistecca, trippa, braciola, carré, coscia, cosciotto, costata, costoletta, filetto, hamburger, ossobuco, scaloppa.
La selvaggina: camoscio, capriolo, cervo, cinghiale, fagiano, lepre, pernice, quaglia, piccione, tordo.
Il pesce: d’acqua dolce, di mare, azzurro, crostacei, molluschi, alici, anguilla, aragosta, baccalà, branzino, spigola, carpa, cefalo, cernia, dentice, gambero, granchio, luccio, merluzzo, nasello, orata, palombo, sarda, seppia, sgombro, sogliola, tinca, tonno, triglia, trota, vongole.
La salumeria: bresaola, coppa, cotechino, mortadella, pancetta, prosciutto, salame, salsiccia, zampone, soppressata, ventresca.
I formaggi: duro, filante, fresco, molle, salato, tenero, asiago, belpaese, burrino, cacio-cavallo, caciotta, camembert, cheddar, crescenza, emmental, gorgonzola, grana, groviera, lodigiano, mascarpone, mozzarella, padano, parmigiano, pecorino, provola, provolone, reggiano, ricotta, scamorza, sottiletta, taleggio, toma, stracchino.
Dolci e gelati: babà, bombolone, brioche, budino, cannolo, cassata, charlotte, chiacchiere, ciambella, cornetto, crème caramel, crepe, croissant, crostata, krapfen, meringa o spumone, millefoglie, montebianco, mostacciolo, mousse, pan di spagna, pandoro, panettone, pastiera, pignolata, profiterole, ricciarelli, saint-honoré, semifreddo, sfogliatella, strudel, tirami su, torrone, torta, zuppa inglese, zuccotto.
Condimenti: curry, ketchup, mostarda, maionese, zenzero, senape, origano, menta, malva, basilico, borragine, rafano, salvia, ruta, finocchio, prezzemolo, rosmarino.
Il pane quotidiano: alle olive, all’olio, al sesamo, azzimo, bianco, casalingo, casereccio, comune, condito, di crusca, di segale, integrale, nero, pugliese, scondito o toscano, biscottato, abbrustolito, tostato, soffice, stantio, di giornata, croccante, focaccia, grissino, pizza, schiacciata, brioche, tramezzino, toast, filone, sfilatino, pagnotta, panino, rosetta, michetta, ciambella, filoncino.
“I prezzi delle bambine e dei ragazzi, da qualche giorno, erano caduti, e continuavano a ribassare. Mentre i prezzi dello zucchero, dell’olio, della farina, della carne, del pane, erano saliti, e continuavano ad aumentare, il prezzo della carne umana calava di giorno in giorno. Una ragazza fra i venti e i venticinque anni, che una settimana prima valeva fino a dieci dollari, ormai valeva appena quattro dollari”. (Curzio Malaparte: ‘La pelle’, Garzanti, Milano, ’67 – pag. 16).
Strettamente collegato al cibo è il vino, uno degli aspetti salienti della civiltà umana.
Con i vini bisogna fare attenzione: a quanto sembra, sono un elemento caratterizzante di una persona che voglia fare colpo su di un’altra. Avrà più possibilità chi riuscirà a non confondersi fra un vino d’annata, da pasto, da tavola, da dessert, d.o.c., novello, amabile, asciutto, corposo, dolce, frizzante, fruttato, liquoroso, pastoso, robusto, rotondo, secco, spumeggiante, bianco, rosso, chiaretto, giallo paglierino, rosso rubino, moscato, passito, spumante, aromatico, barbaresco, barbera, aglianico, brachetto, bordeaux, dolcetto, champagne, chianti, grignolino, lambrusco, malvasia, madeira, nebbiolo, sangiovese, trebbiano, zibibbo, porto, prosecco, sherry, beaujolais.
Nunc est bibendum! Bere, brindare, centellinare, pasteggiare, in caraffa o bicchiere o coppa o calice.
A volte, è opportuno operare una trasfigurazione dell’oggetto o del luogo reale.
“Il tetto del Padiglione d’oro, in legno dolce, è leggermente inclinato: l’intera struttura risulta perciò lieve ed elegante. Si tratta di un capolavoro dell’architettura da giardino, nel quale lo stile residenziale è bene armonizzato con quello buddista”…
“… il Padiglione d’oro mi sembrava un elegante vascello sul mare del tempo… pareva aprirsi un varco nell’immensità della notte, avviato a una traversata di cui era imprevedibile il termine. Di giorno quello strano vascello gettava le ancore rassegnato sottomettendosi agli sguardi della folla, ma al calar della note,l’oscurità gli donava nuova forza, e leggero s’allontanava tendendo al vento il tetto come un’ampia vela”. (Yukio Mishima: ‘Il Padiglione d’oro’, Feltrinelli, Milano, ’86 – pagg. 22 – 23).
Senza dimenticare gli odori.
“Entrai da una apertura nella staccionata, parcheggiai a notevole distanza dagli uffici illuminati e mi inoltrai nel crepuscolo, che era davvero tanto freddo da farmi considerare con gratitudine il mio montone. Odori di pino, abete, abete rosso, freschi e resinosi cadaveri dal nord, impilati in falangi orizzontali di assi due-per-quattro, quattro-per-quattro, quattro-per-sei, alcune più nodose, come succede ai libri e alle vite, ma quasi nessuna priva di nodi, senza quei residui resinoso oscuri che, per quanto li copriamo di flatting e di vernice, rispuntano sempre. Distinsi una lieve e sacra zaffata di cedro, di assi e travi legate con nastri d’acciaio, e sentii il lontano rumore di uomini che battevano sul legno e parlavano fra loro in spazi riecheggianti, alla fine di una faticosa giornata… Segatura, un virgineo aroma, permeava l’aria nera cristallizzata, e una moltitudine di ombre dritte scagliate dalla struttura di assi suggeriva il crollo silenzioso di una diagonale di alberi… Mi sentii circondato da una benedizione, da una fragrante benevolenza, eppure, quando l’ombra di un uomo mi si accostò e mi chiese se cercavo qualcuno tornai alla mia macchina con fretta criminale”. (John Updike: ‘La versione di Roger’, Rizzoli, Milano, ’88 – pag 148).
Gli odori sono parte in causa anche nel sesso. Gli odori attraggono più delle parole. I feromoni, quelle sottili e impercettibili emanazioni corporee, di natura puramente chimico-cerebrale, abbattono barriere culturali e sociali. L’attrazione dei sensi e l’odio, suo fratello, sono i primi e implacabili lottatori di ogni psicologia, di ogni carattere. La razionalità è solo un mito.
Il sesso, dunque. Dice Morris West: “Non ho mai sentito la necessità di scrivere ciò che uno fa a letto. Capisce? Io lo faccio con gioia (meglio, lo facevo con gioia, quand’ero più giovane) ma il fatto che non ne parli non deriva dal mio essere irlandese. E’ soltanto una questione di buon gusto… di origine inglese… a me hanno insegnato che in un club non si parla né di donne, né di politica, né di religione”. (Intervista a ‘Millelibri’, marzo ’89). Ma questo, secondo noi, è un limite inaccettabile alla scrittura, che è libertà e riflette la vita intera e non solo alcuni aspetti, altrimenti sarebbe mutilata. Caso mai, sarà affidata alla coscienza di ognuno la quantità di spazio dedicato sulla pagina al sesso, ma non eluderlo completamente.
“Forse non vorrai, ecco, far l’amore qui” dice Dale, che si dà da fare nella cucinetta, niente più di un’alcova con un fornellino elettrico sopra un piccolo frigorifero. Sembra quasi sperarlo. Lei si sbottona il cappotto e lo drappeggia su una delle sedie cenciose, che quasi si ribalta sotto quel peso. Posa il cappello di pelliccia – rosso come i suoi capelli, come gli stivali – sul cappotto, e poi la sciarpa. L’osservazione ha provocato in lei un’ondata di risentito desiderio… Esther si siede sul letto per togliersi gli stivali con il tacco alto… ben sapendo che dale troverà sexy l’improvviso abbassarsi della sua statura, e la vista dei piedi senza scarpe sulle assi del pavimento.
Poi gli circonda la vita con le braccia, ed esplora con le dita il triangolino di pelle che la camicia lascia scoperto sopra la cintura. Lui risponde giocherellando con la vita di Esther, e le dita scivolano sotto i capelli puntati fino alle ciocche libere e fini sulla nuca. Lontano da casa sua e dal solaio rigurgitante delle sue ampie e decise pennellate, Esther rinuncia all’autorità; qui in questa camera sconosciuta gli amanti sono timidi, come sarebbero se si trovassero improvvisamente catapultati nel mondo, una coppia malcombinata assurda per tutti tranne che per loro. Dale l’abbraccia in uno spasimo di rimorso e voglia di proteggerla, e scatta la loro reazione chimica… si è eccitato così in fretta che lei è ancora lievemente asciutta, e dapprima fa male, ma poi dietro le sue palpebre chiuse il dolore cede a quell’enfiato senso di completezza, di essere talmente colma che la stessa paura della morte è spinta giù oltre il margine, un’eclisse di rotondità, di buchi e soli, che non ricorda di aver mai provato con Roger…” (John Updike: ‘La versione di Roger’, Rizzoli, Milano, ’88 – pag. 196).
Abbiamo già parlato delle nuvole. La meteorologia ha un ruolo importante perché riesce finanche a trasformare l’umore delle persone. Come l’alimentazione, è uno dei principali interessi dell’uomo, ad ogni latitudine. Il clima può essere arido, marittimo, continentale, mite, nevoso, piovoso, rigido, secco, temperato, nuvoloso.
Il tempo: afoso, bello, brutto, burrascoso, asciutto, clemente, incerto, variabile, ventoso, umido, splendido, stabile, tempestoso, tiepido, uggioso; ma si può rischiarare, rinfrescare, guastare, addolcire, scurire.
Il cielo: coperto, velato, plumbeo, sereno, terso, limpido.
I venti: alisei, aquilone, grecale, libeccio, scirocco, zefiro, bonaccia, ponentino, maestrale, tramontana, mulinello, raffica, turbine, impetuoso, sfavorevole, secco, violento, anticiclonico, terrestre, marino, folata, refolo; ma che può cessare, spirare, rabbonirsi, muggire, impazzare, sfuriare, fischiare.
Le nubi le ha descritte con maestria Hesse (vedi sopra). Aggiungiamo: alte, cumuliformi, basse, cirri, nembi, nuvolaglia, nuvolone, sparse, minacciose, sfilacciate.
La pioggia: nubifragio, uragano, turbine, pioviggine, rovescio, spruzzata, tempesta, temporale, a catinelle, a rovesci, a dirotto, fine, lenta, ostinata, scroscio, acquerugiola.
Altri fenomeni atmosferici: neve, nevischio, grandine, arcobaleno, tempesta di polvere, aurora, crepuscolo, fulmine, folgore, lampo, tronito, tuono, boato, fragore, rombo, ondata di caldo, di freddo, nebbia densa, fitta, leggera foschia, banco di nebbia.
E, alla fine, giunge sempre la morte.
“Uno vicino all’altra, riposano gli amanti. Aleggia pace sulle loro tombe, e dalla volta li guardano figure d’angeli serene, d’arcana affnità: e che momento felice, quando un giorno si ridesteranno insieme” (Johann Wolfgang Goethe: ‘Le affinità elettive’, Garzanti, Milano, ’82 – pag. 281).
Anche se la si può trattare in modo sarcastico, per tentare di esorcizzarla.
“Dennis non si affrettò nella scelta. Studiava tutto quello che era in vendita; la più semplice di quelle bare, riconobbe umilmente, eclissava la più sfarzosa prodotta al Campo della Beata Caccia; e quando s’accostò al livello dei duemila dollari – e non erano le più dispendiose – gli parve di trovarsi nell’Egitto dei Faraoni. Decise infine per una cassa di noce massiccia, con ornamenti di bronzo e rivestimento di raso trapunto. Il coperchio, seguendo il consiglio, era in due parti.
“Siete sicura che riusciranno a renderlo presentabile?”
“Il mese scorso abbiamo avuto un Caro Estinto, che fu trovato annegato. Era rimasto in acqua per un mese, e fu identificato soltanto per l’orologio a polso. L’aggiustarono così bene,” disse l’informatrice distraendosi inesplicabilmente dal nobile eloquio usato finora, “che sembrava uno sposo il giorno delle nozze. Quei ragazzi lassù sanno il loro mestiere. Anche fosse stato seduto su una bomba atomica, riuscirebbero a renderlo presentabile.”
“E’ molto confortante.”
“Credo bene.” E riprendendo lo stile professionale, come fosse stato un paio d’occhiali, continuò: “Come sarà vestito il Caro Estinto? Abbiamo il reparto confezioni. A volte, dopo lunga malattia, non si dispone più d’abiti che vanno bene. Altre volte i Cari Rimasti giudicano inutile sprecare un buon vestito. Noi possiamo vestire un Caro Estinto molto economicamente, dato che un abito da bara non è un abito da fatica; e nei casi in cui per il commiato rimane esposta la parte superiore soltanto, bastano giacca e panciotto. Qualcosa di scuro è più indicato per mettere i fiori in risalto.”
“Dennis era completamente affascinato.” (Evelyn Waugh: ‘Il caro estinto’, Garzanti, Milano, ’67 – pag. 47).
Anche le metafore, le similitudini e le altre figure retoriche sono prova della effettiva capacità dello scrittore di saper padroneggiare e rendere duttile ai propri fini la lingua, ma senza esagerare, per non dire stupidaggini, come la seguente:
“Sai come si comportano le piante quando non le innaffi per qualche giorno? Le foglie diventano molli, invece di levarsi verso la luce cascano in basso come le orecchie di un coniglio depresso”. (Susanna Tamaro: ‘Và dove ti porta il cuore’, Baldini & Castoldi, Milano, 95 – pag. 117).