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Il Maestro Magro – Gian Antonio Stella

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Il viaggio che Osto, diminutivo di Ariosto, il maestro magro, compie dalla natia Sicilia all’Italia settentrionale, dapprima in Polesine e succcessivamente a Torino, è un viaggio attraverso l’Italia dal Dopoguerra ai primi anni Sessanta, l’Italia della ricostruzione, del boom economico, del mito del benessere simboleggiato dai primi elettrodomestici, dalla Seicento Fiat, dalla televisione.

L’Italia ingenua e credulona, bigotta e perbenista, povera alla ricerca di riscatto, terra di emigranti e di poveracci o di speculatori, profittatori  e imbroglioni.

Italia democristiana e clericale, che guarda con sospetto i comunisti e chiunque trasgredisca alle regole della morale corrente, un paese con vaste sacche d’ignoranza e d’analfabetismo che pian piano cerca di risollevarsi con alterne fortune, compiendo errori clamorosi.

 

Osto Aliquò e suo fratello Ludovico sono figli di Placido, un tappezziere-falegname siciliano e comunista, che la sera fa il puparo per passione e conosce a memoria intere ottave dell’Ariosto (un omaggio al poeta sono anche i nomi dei suoi figli).

Siamo nel primo Dopoguerra, per un involontario sgarro del padre verso il boss locale, il suo teatro viene incendiato. Per la famiglia Aliquò iniziano i guai: Placido impazzisce per il trauma e viene ricoverato in un cronicario per evitare che anche Agata, sua moglie, ne segua la sorte; Ludovico emigrerà in Australia dando sempre più rare notizie di sé; Osto, giovanissimo maestro, prenderà il treno diretto in Polesine, pieno di rabbia e di dolore per quella sua isola così bella e così nefasta.

I nomi delle città – tutti luoghi che Osto si ripropone di visitare prima o poi –  visti nelle stazioni sono le tappe di una via difficoltosa intrapresa già da molti altri prima di lui.

“La cosa che più lo turbava, in quella notte di viaggio verso il Nord, un viaggio senza ritorno che marcava come un taglio di cesoia il rifiuto rabbioso per quella sua isola che amava e odiava come si può amare e odiare solo una donna di sorridente crudeltà, era proprio quel passaggio senza tappe dalle ginestre al carpino, dal cannolo al clinto, dal marzapane alla polenta”. (p.35-36)

Ed ecco un breve ritratto di Osto: 

“Magro, lungo un po’ meno del padre, gli stessi zigomi alti, gli occhi neri e vivissimi, una piccola cicatrice infantile all’angolo sinistro della bocca che ne accentuava l’espressione ironica, spalle strette, mani grandi, era stato tirato su nella convinzione che la vita, il mondo, gli uomini fossero ordinati come il vecchio Placido ordinava i pupi dietro il fondale: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Di qua il bene, di là il male. Di qua l’onestà, di là il tradimento”. (p.28)

 

Il suo arrivo in Polesine, terra scelta perché povera come la sua, è segnato immediatamente dall’incontro con la morte: due fratelli annegati mentre trasportavano a casa un carico d’acqua in quella terra che d’acqua, ma amara e imbevibile, è impregnata. Le difficoltà sono innanzi tutto linguistiche – per realismo Stella usa spesso il dialetto nel suo romanzo – ma anche legate all’ignoranza e alla diffidenza degli abitanti.

Intenzione di Osto, che ha ereditato le idee comuniste del padre, è di fare il maestro magro.

“Dice dunque questa legge che se un maestro disoccupato riesce a mettere insieme una classe di persone adulte che non sanno né leggere né scrivere, può chiedere di occuparsene e ha diritto a uno stipendio. Certo, non ha lo stipendio intero. Fatichi, a mangiarci. Mica per altro la chiamano «la legge dei maestri magri»”. (p.44)

Poco per volta Osto riesce a farsi benvolere da quei contadini miserabili, ma simpatici, diffidenti perché abituati a venir sempre sfruttati, dimenticati dallo stato  e dalla stampa, a meno che non si tratti di riportare qualche notizia curiosa, come la vicenda della banda di ragazzini che, influenzati da “Ombre rosse” di John Ford decidono di assaltare, mascherati da pellerossa, una vecchissima littorina, facendosi pagare in dolci e caramelle. Una stampa comunque sempre pronta ad accusare più che a capire.

Par di leggere tra le righe, qui come nell’episodio torinese del bidello padre di sette figli che finisce sbattuto in prima pagina e poi in galera per sei mesi per aver rubato per fame una sola volta due scatolette di carne e mezzo litro d’olio al supermercato, una denuncia dell’ingiustizia sociale e soprattutto di un certo modo di fare informazione.

 

In Polesine Osto incontra anche Ines, una giovane madre istriana che, giovanissima, ha sposato un veneto andato militare dalle sue parti. Un mese dopo le nozze lui era stato mandato in Albania e, dopo qualche lettera, era sparito. In realtà s’è rifatto una vita in Danimarca.

Ines, donna forte e volitiva, sarà la compagna fedele di Osto, dal quale avrà una bambina, Grazia, ma i due, per l’assurdità di una legislazione arretrata e maschilista, non riusciranno mai a sposarsi, affrontando così non poche difficoltà e pregiudizi sociali radicatissimi. Saranno due diversi, spesso guardati con sospetto, umiliati, emarginati dalla chiesa e dal perbenismo sociale.

Barattando allievi con accompagnamento musicale di fisarmonica, strumento che Osto suona bene, a sagre e matrimoni, il maestro riesce ad racimolare la sua classe di adulti, arrangiandosi in tutti i modi per avere l’aula e il materiale didattico.

Tutta questa prima parte è animata da figure di popolani, pescatori e contadini, alcuni burloni e artefici di scherzi clamorosi, che vivacizzano il romanzo alternando episodi divertenti ad altri più tristi e drammatici.

Lo sfondo è di analfabetismo, miseria, sfruttamento (il suolo del Polesine oltre tutto s’abbassa  sempre più per l’estrazione del gas), diffidenza, bigotteria, pregiudizi. Sono zone in cui la modernità stenta ad arrivare e la telefonata di un parente dall’Australia scatena l’agitazione in tutta la famiglia e in paese, tanto che due ore prima del preannunciato evento già tutti sono in fila di fronte alla cabina.

In queste zone il bigottismo clericale non è minore dell’ottusità del Partito Comunista. La relazione di Osto e Ines, che formano una cosiddetta “famiglia di contrabbando”, suscita infatti non solo la condanna del parroco, ma anche quella dei compagni.

“Il partito lo sa, cosa è bene e cosa no”(p.96) dice un funzionario locale.

“La linea del partito è chiara. Noi siamo «per un sobrio comportamento eterosessuale, diverso da quello degli inetti rampolli della borghesia terriera che combinavano libertinaggio e oppressione sociale, disgustosi parassiti che concupivano vigliaccamente le figlie del popolo»”. (p.97)

Grazia sarà sempre una  “figlia di contrabbando”.

E se il popolo apparirà, nell’insieme, più vivo e, alla fine, disponibile con Osto e la sua famiglia, il ceto borghese – il medico, il parroco, il farmacista – si rivelerà più ostile e perbenista.

È un’Italia vera, con ancora molta strada da percorrere, quella che Stella delinea con una vocazione al realismo dichiarata attraverso le parole di Osto, che ha tra l’altro l’abitudine di conservare vecchi ritagli di giornale con notizie strane:

“Te l’ho detto: la verità è che certe volte il mondo reale offre delle storie che sembrano così impossibili che un oprante o uno scrittore non oserebbe scriverle”. (p.64)

 

La formazione giornalistica di Stella, le sue ricerche sull’emigrazione e sui costumi degli italiani costituiscono la solida base su cui poggia un romanzo decisamente corale, dove le storie, gli aneddoti, le avventure hanno il sopravvento sull’approfondimento dei personaggi, in fondo tutte figure semplici, senza troppi conflitti interiori, presi come sono dalla necessità di far quadrare i conti a fine mese, dal lavoro, dai figli. Gli stessi Osto e Ines sanno distinguere quasi per istinto bene e male, hanno i loro desideri, spesso indotti dalle pubblicità dell’epoca, si sentono cattolici a modo loro, pur essendo qualificati come pubblici concubini dalla chiesa ufficiale, vogliono una vita tranquilla e normale.

A Stella interessa dare un quadro dell’Italia, mostrare la mentalità, le aspirazioni, la vita di quel periodo.

 

La seconda parte del romanzo si svolge a Torino. Sono passati una decina d’anni, Grazie è cresciuta, Giacomo, il primo figlio di Ines, è ormai un giovanotto che ha preferito lavorare presto e guadagnerà in breve molto più del suo padre putativo. Dopo un breve periodo di difficoltà economiche Osto e Ines vanno a vivere in un condominio popolare, lui insegna in una classe di ben trentasei bambini, lei lavora in ufficio presso un presunto ingegnere palazzinaro.

“Un muratore è. Un muratore che ha fatto i solti mettendo su un’impresa edile e andando a costruire palazzine done non poteva. Palazzine orrende, dove la gente sta male. Polo d’inverno, tropici d’estate. E come se li è fatti dare, volta per volta, i permessi? Pagando. Dné! Dné.” (p.289) Dice di lui Osto.

Un vago riferimento a personaggi attuali sorge spontaneo.

Ci ritroviamo nell’Italia del boom economico, della Vespa Piaggio e della Seicento Fiat, della paura della fine del mondo divulgata da qualche setta, dei fotoromanzi e degli sceneggiati televisivi, della pubblicità che orienta i desideri, dell’ignoranza persistente, della superstizione e del mito del lotto (impersonati dalla madre di Osto, Agata), degli acquisti a rate, delle prime speculazioni edilizie, che devasteranno interi territori (ne farà le spese Osto, costretto a vendere per poche lire alcuni terreni paterni nella zona di Taormina).

Non mancano gli sfruttatori, i maghi che speculano sulla credulità e l’ignoranza popolare, gli arrampicatori sociali, la corruzione, la presenza di figure che, per mantenere il potere, hanno mutato la camicia nera con altra uniforme e si sono riciclate.

Verso la fine del romanzo s’intuiscono le prime avvisaglie della contestazione: i preti-operai, le chitarre in chiesa ad animare i canti, la liberazione sessuale, gli anticoncezionali.

La seconda parte è un insieme di fatterelli ed episodi spesso ambientati nel microcosmo condominiale con le sue liti, i pettegolezzi, gli incontri, le solidarietà, una folla di macchiette popola e vivacizza quest’universo da commedia, dando vita a vicende  che spesso strappano un sorriso.

Non mancano i drammi e i problemi. Veniamo così a conoscenza dei cosiddetti bambini clandestini in Svizzera.

Molti emigranti italiani, legati a contratti stagionali, introducevano di nascosto i figli nella Confederazione Elvetica e poi li tenevano nascosti in casa, segregati come certi ebrei in Germania nel periodo delle persecuzioni naziste. Bastava però che un vicino di casa s’accorgesse del bimbo o sospettasse qualcosa e facesse denuncia per far scattare il meccanismo d’espulsione per tutti e quindi il ritorno alla miseria.

In questi casi molti non avevano il tempo di portare i figli al lontano paese d’origine e allora li lasciavano negli orfanatrofi italiani di confine, ormai strapieni. I più fortunati trovavano un parente o un amico in una regione vicina disposto ad ospitare i minori per il tempo necessario. Era il fenomeno degli orfani di frontiera.

Miseria e sfruttamento, vizi e virtù degli italiani, ironia nei confronti di certi mode come la mania dell’araldica o quella di affibbiare nomi stravaganti ai figli. Si ha l’impressione, soprattutto verso la fine, che Stella abbia voluto inserire nel suo romanzo proprio tutto, compreso l’ex-saloino, vicino di casa, che spiega quali motivi lo  spinsero – diciannovenne – a partecipare alla Repubblica Sociale lui, figlio di un comunista e mai stato fascista; e uno zio d’America apportatore di una presunta fortuna.

Sicuramente il popolo descritto da Stella, pur con i suoi difetti, non manca mai di vitalità e colore.

 

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

 

Gian Antonio Stella (Vicenza 1957), editorialista e inviato di politica e costume del “Corriere della Sera”. Ha scritto “Schei” (1996), un reportage sul mitico  Nord-Est; “Dio Po/gli uomini che fecero la Padania, un velenoso pamphlet sulla Lega; “Chic” (2000), un viaggio tra gli italiani che hanno fatto i soldi; “Tribù” (2001), ritratto spassoso e spietato della classe politica di Destra salita al potere nel 2001; “L’orda,quando gli albanesi eravamo noi” (2002), dedicato al razzismo anti-italiano che i nostri emigrati vissero sulla loro pelle; “Odissee” (2004), sull’emigrazione degli italiani ai primi del Novecento.

 

Gian Antonio Stella, Il maestro magro, Milano, Rizzoli 2005.

 

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