Lo devo ammettere. Adoro Almodvar. Adoro soprattutto il modo in cui tratta la vita. Le cose più tragiche o assurde nei suoi film diventano le più normali. Non tanto in un senso restrittivo (normale come banale) quanto nel farci capire quanto ristretto sia invece il nostro concetto di normalità.
Assassini, morte, drammi indelebili, rapporti incrinati non sono mai qualcosa di insuperabile. Fanno semplicemente parte della vita, non sono le cose migliori che uno si aspetta, ma sono comunque momenti che potremmo affrontare. Quindi Raimunda (Penelope Cruz) che si ritrova in casa il corpo del marito ucciso dalla figlia, non si scompone. Con una lucidità tutta femminile nasconde il corpo (nella cucina di un ristorante dove poi inizierà a lavorare), pulisce il coltello dal sangue (per poi usarlo per cucinare) e aspetta il momento giusto per disfarsi del cadavere (seppellendolo vicino a un fiume, in un luogo che il marito amava particolarmente). Un episodio che avrebbe potuto trasformarsi in un dramma angosciante passa senza lasciare traccia. Se non una macchia di un rosso scuro sul volto di Raimunda, che alla domanda se si tratti di sangue, risponde molto naturalmente – Cose di donne.
Perché è proprio di donne che parla il film. Di donne e del loro universo. Gli uomini sono relegati ai margini, in ruoli superficiali e squallidi, quasi a voler dimostrare come in fondo l’universo maschile e quello femminile, nella loro essenza, siano fondamentalmente inconciliabili.
Ma Pedro non dà nessuna possibilità agli uomini, nessun riscatto, nessuna fiducia. Qui ad emergere è il senso di una comunità femminile che trova il suo collante tra i dispiaceri della vita, nel farsi forza a vicenda poggiandosi sulle situazioni disastrose che il destino ha fatto passare a queste donne. Che trovano nel loro stesso mondo quella complicità che sembra totalmente assente dal loro rapporto con gli uomini.
Almodovar tesse le fila di incontri improbabili che si trasformano in realtà. Come la presenza di Irene, la madre delle due protagoniste, che torna a far loro visita. Scambiata per un fantasma, la donna, si riavvicinerà alle figlie per farsi perdonare. Ma ancora più del perdono è la voglia di stare vicino a loro a spingerla a mostrarsi, per dargli quell’appoggio che diventa indispensabile nel momento stesso in cui ci accorgiamo che queste donne sono state lasciate in balia di se stesse, abbandonate da tutti.
Irene infatti rimarrà a curare Augustina (un’amica di Raimunda e Sole) come prima era rimasta ad aiutare la sorella. Una solidarietà femminile che ha la forma di un amore dimenticato e più puro rispetto a qualsiasi rapporto con il mondo maschile.
E se sono gli incredibili sguardi di Penelope Cruz o la faccia invecchiata e a tratti surreale di Carmen Maura a farmi emozionare e a farmi venire la voglia di piangere, non sempre le immagini mi hanno trasmesso quella sincerità di fondo di cui ho bisogno per provare veri sentimenti.
Le interpretazioni sono tutte meravigliosamente sincere, ma non lo è, almeno per questa volta, la storia raccontata da Pedro. Perché quell’umorale e ristretto universo femminile può anche essere visto come una summa di tutti gli archetipi (chiamarli luoghi comuni mi sembra brutto) del cinema di Almodòvar. Archetipi che da un punto di vista stilistico trovano sempre una loro superba collocazione nella struttura del film. I colori e le musiche che tessono la trama, le inquadrature che ormai nella loro semplicità rimandano a qualcosa di classico. Ma anche archetipi narrativi che iniziano a sembrare volutamente usati per dover far emozionare a tutti i costi lo spettatore. Come il cancro di Augustina o la spiegazione su chi sia il vero padre delle figlia di Raimunda. In questo modo Pedro mi ha dato l’impressione che quella normalità di cui parlavo prima sia in grado ormai di crearla solo partendo da quello che normale non lo è affatto. Questa semplicità di narrazione da lui acquisita sembra paradossalmente aver bisogno di una sempre più complessa rete di rapporti e drammi scatenanti che alla fine potrebbero andare a negare (con la loro voluta complessità) quella fluidità di storie ed emozioni che ha creato la bellezza degli ultimi lavori del regista spagnolo. Non è detto, quindi, che la normalità debba essere per forza complessa per poter essere raccontata.
E poi devo dire che i film con sole donne mi sono sempre difficili da analizzare. C’è la parte femminile del mio animo che si emoziona, ma c’è anche quella maschile che, in un certo senso, chiede giustizia.
Credo che Volver sia prima di tutto un film sulle donne dedicato alle donne. Un mondo, un universo da cui gli uomini sono stati completamente tagliati fuori. Perché, lo dico e forse dovrei vergognamene, oltre allo sguardo infinito della Cruz sono pure il suo culo e le sue tette a farti stare a guardarla. L’uomo è quindi condannato, non potrà mai avere una libertà di giudizio sulle donne. Una libertà che ti faccia apprezzare solo la loro anima o la loro forza o il loro coraggio. Il loro corpo, in un modo o nell’altro, è quello che ti frega. E per quanto si possa credere nella bellezza di uno sguardo, l’attrazione esercitata da un bel paio di tette sarà sempre più forte.
E questo Almodovar lo sa benissimo. E infatti gioca con le sue donne, soprattutto con la Cruz (che qui omaggia, con i suoi vestiti e il suo personaggio, due delle donne più importanti del nostro cinema: la Loren e la Magnani) per prendersi beffa in realtà degli uomini. E alla fine, almeno per me, tutto questo rimane qualcosa di distante, di sfuocato. Rimangono distanti i comportamenti femminili, le loro esternazioni, il loro modo di essere.
Ma proprio in questo forse c’è il più grande regalo che Almodovar potesse fare alle donne. Un film che non solo parli di loro. Ma che, come loro, ci parli di qualcosa di misterioso e meraviglioso. Un film che ci parli della loro stessa essenza.