Se non avessi il senso dell’umorismo
mi sarei suicidato molto tempo fa.
Mahatma Gandhi
Il suicidio, cioè il fatto, l’atto di togliersi deliberatamente la vita, non costituisce reato nel sistema penale italiano. E questo per diverse ragioni pratiche, in primo luogo per l’inefficacia della pena, considerato che lo stesso Codice Penale stabilisce, all’articolo 150, che “
La morte del reo, avvenuta prima della condanna , estingue il reato”, mentre l’art.171 prevede che “
La morte del reo, avvenuta dopo la condanna , estingue la pena”
[2].
Dunque gli effetti che la legge penale riconnette all’evento “morte”, produrrebbero un “corto circuito” nel sistema che volesse perseguire un suicida, tale da escludere la punibilità dello stesso, senza necessità di condividere una originale opinione dottrinale per cui la minaccia di una pena per l’autore del suicidio potrebbe rafforzare il suo intento, inducendo il soggetto a programmare l’evento in modo da essere sicuro del successo
[3].
Storicamente, i giuristi romani accolsero la massima degli stoici
[4] che dichiarava lecito il suicidio, ma lo punivano se risultava di pregiudizio ai privati (come nel caso del servo), alla
Res publica (nel caso del militare), al Fisco-Erario (quando il suicida voleva con il suo atto sottrarsi alla punizione della confisca dei beni)
[5].
Nel Medioevo la legislazione statutaria puniva il suicida con l’attribuzione al patrimonio pubblico dei suoi beni; ma la dottrina cercava di distinguere le cause che avevano indotto il suicida al suo atto, riallacciandosi alla casistica romana.
Tuttavia il fatto che l’ordinamento rinunci a prevedere un delitto a carico del soggetto attivo/passivo dell’atto (unica vittima reale della lesione), non significa che rimanga indifferente al fenomeno, poiché comunque il bene della vita rimane “indisponibile” per ciascun individuo, secondo la concezione ben presente nella ideologia dominante all’epoca dell’emanazione del Codice Penale italiano (1930); l’art. 580 del Codice Penale punisce l’istigazione o aiuto al suicidio
[6].
Il primo comma prevede:
“Chiunque determina altrial suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima[7]”.
La pena è aumentata se la persona istigata è minore di 18 anni o inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica; se la persona istigata è minore di 14 anni o comunque incapace di intendere o di volere si applicano le norme sull’omicidio colposo
[8] (art.580 II comma, c.p.).
Istigare (o determinare altra persona), dunque, significa compiere un’azione sull’altrui psiche volta a far sorgere o a rafforzare motivi di impulso, oppure ad affievolire motivi inibitori; per il diritto penale, è la condotta consistente nell’indurre un soggetto ad un’azione delittuosa con consigli e incitamenti. Oltre l’aspetto di “partecipazione psichica”, la condotta può consistere anche in una semplice “partecipazione materiale”, nell’agevolare l’esecuzione del suicidio in qualsiasi modo (fornendo il mezzo, offrendo un luogo idoneo, ecc…).
Nel corso degli anni le sentenze della magistratura e della Corte di Cassazione, in particolare, hanno circoscritto meglio e fornito ulteriori elementi per l’interpretazione della fattispecie in esame
[9]. Dal punto di vista del “rafforzamento dell’altrui proposito suicida”, pur essendo richiesto, quanto all’elemento psicologico del reato, il solo
dolo generico[10], è però necessario che sussista, nell’agente, la consapevolezza della oggettiva “serietà” del suddetto proposito (nella specie, la Corte ha ritenuto che correttamente fosse stata esclusa, dal giudice di merito, la sussistenza del reato a carico del fidanzato di una ragazza il quale, a fronte del manifestato, e poi purtroppo attuato, proposito della stessa di suicidarsi mediante lancio da un balcone, per reazione ad una scenata di gelosia, l’aveva verbalmente incoraggiata a porre in essere il detto proposito, nel presumibile convincimento che, come già avvenuto in passato, esso non avrebbe avuto seguito)
[11].
Anche il raffronto del delitto di istigazione al suicidio con un’altra fattispecie, apparentemente molto simile, quella dell’omicidio del consenziente (art.579 c.p.
[12]), può essere d’esempio per precisare meglio quali siano i comportamenti proibiti: il criterio fornito dalla giurisprudenza è la “qualità” della condotta partecipativa
[13]. Nel caso di “omicidio del consenziente”, la condotta del soggetto attivo (colpevole), si concreta nell’esecuzione dell’evento morte, mentre il soggetto passivo (vittima), partecipa con il proprio consenso; nel delitto di “istigazione” il soggetto attivo, non partecipa in alcun modo all’esecuzione materiale, che deve essere posta in essere completamente dal soggetto passivo (ad es. in caso di suicidio con barbiturici, metterli a disposizione del potenziale suicida è istigazione; portarli alla sua bocca, perché magari infermo, è omicidio).
La vicenda umana e giudiziaria di Fabiano Antoniani, noto come DJ Fabo, che, a seguito di un gravissimo incidente stradale, rimane tetraplegico e cieco (pur mantenendo piena capacità di intendere e volere), ha investito direttamente l’applicazione e la legittimità stessa dell’art.580 c.p.
[14]. Dopo un anno di ricovero e diverse terapie, anche sperimentali all’estero, le sue condizioni cliniche vengono dichiarate irreversibili; Antoniani dichiarava più volte e in modo inequivocabile di voler lasciare quella vita che “non considerava più vita”. Con l’aiuto dell’Associazione “Luca Coscioni” e in particolare di Marco Cappato, Antoniani viene aiutato a recarsi in Svizzera e qui ad accedere al così detto “suicidio assistito”. Il 27 febbraio 2017, in un centro specializzato vicino a Zurigo, Fabiano Antoniani realizzava la sua scelta irrevocabile e poneva fine alla sua vita, secondo la procedura prevista dalla legge svizzera
[15]. Marco Cappato, sebbene in questa vicenda si sia limitato ad accompagnarlo in automobile dall’Italia alla Svizzera, si autodenuncia ai Carabinieri di Milano. Ha avuto origine, così, un procedimento penale per cui la Procura della Repubblica, dopo aver ricostruito il coinvolgimento di Cappato nella morte di DJ-Fabo come “partecipazione materiale” nel suicidio altrui, individua la fattispecie di riferimento nell’art. 580 c.p. (dopo aver escluso tanto l’ipotesi di “omicidio del consenziente”, quanto quella di “aiuto morale”, ossia l’istigazione o il rafforzamento del proposito suicida). Tuttavia, nel maggio, 2017 richiede al Tribunale l’archiviazione del caso nel quale la condotta materiale di Cappato non avrebbe avuto valenza illecita
[16].
In realtà, né la Corte Costituzionale né la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno mai riconosciuto il rango di “diritto fondamentale” al diritto a porre fine alla propria vita in modo dignitoso
[17]. Nel luglio 2017, il GIP del Tribunale di Milano rigetta le richieste avanzate dai Pubblici Ministeri (e dalla difesa), e impone alla Procura di formulare l’imputazione nei confronti di Marco Cappato per la fattispecie di “aiuto al suicidio”. La Corte di Assise di Milano
[18], nel novembre 2017, da una parte stabilisce che la condotta di Cappato “non ha inciso” sulla decisione di Fabiano Antoniani di porre fine alla propria vita, quindi l’imputato deve essere assolto dall’addebito di avere “rafforzato il proposito di suicidio”, ma, dall’altra parte, Cappato ha provveduto ad accompagnare la vittima in Svizzera, nella consapevolezza di portarlo dove avrebbe realizzato il suo progetto. La condotta dell’imputato è stata condizione per il realizzarsi del suicidio e, di conseguenza, secondo l’interpretazione dell’art. 580 c.p., dovrebbe essere sanzionata.
All’udienza del 14 febbraio 2018, la Corte di Assise di Milano solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. Il ragionamento dei magistrati: il “diritto a morire” è stato “indirettamente” riconosciuto anche nel nostro Paese con la legge n. 219 del 22 dicembre 2017 (c.d. sul “biotestamento”), morte come conseguenza naturale del “rifiuto dei trattamenti sanitari” derivante dalla libera scelta di ogni individuo
[19].
Certo la legge non ha riconosciuto il diritto al “suicidio assistito” secondo le modalità scelte dai singoli perché l’art. 1 della legge 219/17 afferma che non è possibile richiedere al medico trattamenti contrari a norme di legge o alla deontologia professionale. Allo stato, pertanto, non è possibile pretendere dai medici, liberi professionisti o del Servizio Sanitario Nazionale la somministrazione (o la prescrizione) di un farmaco che procuri la morte.
Il problema, pertanto, sta nell’art.580 c.p. che rappresenterebbe, per i magistrati di Milano, una incongruenza del sistema, continuando a sanzionare penalmente la condotta di “aiuto al suicidio” in alternativa alle condotte di “istigazione”, e ciò a prescindere dalla volontà del soggetto passivo. In altre parole, la norma è sempre interpretata “letteralmente” nel senso del “suicidio” come un fatto in sé riprovevole e del diritto alla vita come tutelabile a prescindere dalla volontà dell’individuo. Da, qui, dunque la decisione della Corte d’Assise meneghina di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le “condotte di aiuto al suicidio” al pari dell’azione di “istigazione”. I magistrati hanno avvertito un contrasto della norma sia con i principi della Costituzione italiana sia con quelli della Convenzione EDU, in forza dei quali “il diritto a por fine alla propria esistenza” in piena libertà e dignità, costituirebbe un diritto della persona. La condotta di “aiuto al suicidio”, di chi è liberamente convinto di voler morire, non può essere sanzionata nello stesso modo della condotta, sempre criminale, di “istigazione”.
Oltre all’intervento del legislatore a modificare la norma, aggiungendo un comma che depenalizzi l’aiuto al suicidio se prestato “esclusivamente per motivi compassionevoli ad un malato inguaribile ma nel pieno delle proprie facoltà mentali”, i sostenitori del superamento dell’art.580 c.p. potevano sperare solo in ciò che è effettivamente accaduto: ricorso alla Consulta e futura dichiarazione di incostituzionalità della norma, o di parte di essa. Poiché è improbabile (né, ovviamente, sarebbe auspicabile) che la Corte dichiari incostituzionale anche l’istigazione al suicidio, è importante ricordare che la Corte non ha solo la possibilità di dichiarare o negare l’incostituzionalità di una norma, ma anche quella di emettere una sentenza “additiva”, che appunto “aggiunga” qualcosa all’interpretazione della norma in questione. La proposta degli avvocati che hanno assistito Marco Cappato prevede che la Corte possa dichiarare l’incostituzionalità dell’art.580 c.p. laddove non preveda che non è punibile “
chi si attivi con finalità di tipo solidaristico ed umanitario per agevolare il proposito suicidario della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che procuri gravi sofferenze[20]”.
D’altra parte abbiamo la posizione “cattolica”, dei sostenitori del diritto alla vita, per i quali la Corte Costituzionale non può fare con la sua sentenza un “catalogo casistico” dei casi di “aiuto al suicidio” da non punire e di quelli da punire, discriminando a sua volta tra cittadini in diverse situazioni. Si dirà che i casi che dovrà indicare saranno pochi e con caratteristiche peculiari. Ma il catalogo casistico è proprio quello che la Consulta non può fare (e non farà). E’ il giudice delle leggi, non il legislatore. Non potrà inserire varianti discrezionali a suo criterio. E generalizzare la liceità nell’aiutare un suicida è la cosa più disumana. La più incostituzionale
[21].
Vedremo, tra alcuni mesi, cosa deciderà la Corte di fronte a questa pretesa ulteriore evoluzione della coscienza sociale registrata dalla magistratura ordinaria
[22]…
Non c’è che un problema filosofico veramente serio: il suicidio.
Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta
è rispondere all’interrogativo fondamentale della filosofia
Albert Camus
Articolo n.579-Omicidio del consenziente.