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Invisibili – Fulvio Colucci e Giuse Alemanno

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Vivere e morireall’Ilva di Taranto
introduzione diLino Patruno
illustrazioni diChristian Imbriani
Kurumuny (Lecce,2011), pag. 112, euro 10.00.
 
L’Ilva della famiglia Riva è il prodottodell’Italia che privatizza per distruggere. Chiaramente a favore dei ricchiche, per giunta, ed è il caso dei Riva che acquisirono al loro patrimonioquella città che era stata la nazionale Italsider, ma lo è stato per gliAgnelli e non solo, prima di tutto servono i loro interessi contro tante voltela dignità umana degli operai. Pensiamo, insomma, ai famosi e illegali reparticonfino. Si pensi, inoltre, che Riva a Taranto questo metodo dellamarginalizzazione l’ha usato, praticamente, come si dice, fino all’altro giorno.”Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto” scritto a quattro mani dalgiornalista della Gazzetta del Mezzogiorno Fulvio Colucci e dall’operaio-Ilva escrittore Giuse Alemanno, però, non è sviluppato essenzialmente per tornare araccontarci di questo. Anche perché, infatti, arriva dopo l’importantissimo “Lacittà delle nuvole” di Carlo Vulpio. Ma il volume, dunque, sceglie un’altrastrada da vivere: perché parte dalla drammatica constatazione, ed è a questaragione citato più volte il giornalista Walter Tobagi, che “un tempo glioperari dell’Italsider venivano chiamati ‘metalmezzadri’. Che Tobagi portò allaribalta sull’intero territorio italiota, in virtù dei suo approfondimenti peril Corsera. Il punto è che, spiegano giustamente Colucci e Alemanno, oggi glioperai, tanti dei quali giovani, dell’Ilva non partecipano più in massa agliscioperi. La città è indifferente. Le norme di sicurezza sembrano rispettateeppure puntualmente tornano morti e grande inquinamento. Sono, appunto, operai”invisibili”. Perché non solamente non vengono illuminati dalla restante partedella città, Taranto proprio, che d’altronde potrebbe perfino essere piùpiccola dell’impressionante stabilimento, quanto alla fine fisicamente sonocostretti a fare da soli, dipartito il sindacato, con buio e con il grigiodella fabbrica immensa. Con le sue polveri. Nei suoi vapori assalenti. Ragazzi,altro che classe operaia paiono dire gli autori, in fondo che avrebbero tantovoluto fare i carabinieri. E che oggi vengono inghiottiti dalle rate normali eda ogni direttiva, persino l’organizzazione della ricreazione, da parte delpadrone. Il padrone del vapore, in pratica, che seppur diventato un po’ menorozzo di parte di quello ottocentesco, è in alcune occasioni molto più crudele.A parte, in questo caso, gli abusi degli stessi Riva. Tra l’altro perseguitidalla legge. L’elemento che più impressiona e che viene fuori da questo libro,insieme alla solitudine delle famiglie degli operai ammazzati a lavoro, è lapaura di quelli che prima erano per metà metalmeccanici e per metà mezzadri.Che, insomma, appena possibile correvano verso la terra da accudire e farfruttare nonostante la fabbrica e la vita di fabbrica, i ‘nuovi’ operai delsiderurgico tarantino scommettano giornalmente sul loro stesso rientro casa. Aciò siamo ridotti. Sull’Ilva, e quindi su Taranto, ma dunque sull’Italia delmito e del ricatto del lavoro, persino meridionale, ci sarebbe tanto da dire.Passando per ogni malattia della popolazione. Nei tanti che alla fine con ilmostro nulla dovrebbero aver da fare. E muoiono animali. Il latte sa didiossina. La paura dei giovani lavoratori passa per troppe cose. Mentre maidefinitivamente lo Stato vuole interessarsene.

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