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Fuoco grande – Cesare Pavese e Bianca Garufi

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Il romanzo “Fuoco grande”, scritto nei primi mesi del 1946 a capitoli alterni da Cesare  Pavese e Bianca Garufi e rimasto incompiuto all’undicesimo capitolo, fu ritrovato postumo tra le carte di Pavese.

L’edizione princeps uscì nel 1959 da Einaudi per volontà di Italo Calvino.

Il titolo scelto da Pavese era “Viaggio nel sangue”, poi mutato in “Fuoco Grande” dall’editore, prendendo spunto da una frase della serva Catina, che usa un modo di dire della parlata siculo-calabrese per indicare situazioni difficili.

Ciascun capitolo mostra, alternativamente,il punto di vista di Giovanni e di Silvia, i due protagonisti di una vicenda assai cupa ed aspra, che si svolge perlopiù a Maratea, in Calabria, paese d’origine della ragazza.

 

LA TRAMA

 

Silvia, una giovane che ormai vive e lavora in città, riceve un telegramma e deve partire improvvisamente per la sua terra d’origine, Maratea.

Nel viaggio si fa accompagnare da Giovanni, col quale ha una relazione.

Sarà un viaggio in un Sud profondo, legato ad usanze ancestrali e dalla mentalità arretrata, che porterà Silvia a ripercorrere il suo passato oscuro e Giovanni a scoprire un devastante segreto familiare, tenuto sino ad allora accuratamente celato da Silvia stessa.

Motivo ufficiale del ritorno di Silvia a casa è infatti la grave malattia e poi la morte di Giustino, un ragazzo di tredici anni creduto da tutti suo fratellastro, nato dal secondo matrimonio della madre con l’avvocato, un notabile locale.

In realtà Giustino è figlio di Silvia e del patrigno, è stato concepito quando lei aveva solo tredici anni e le è stato poi strappato via dalla madre.

La ragazza ha lasciato il paese subito dopo il fatto, è passata attraverso altre violenze e altre storie ed ora Giovanni si troverà, gradualmente, a scoprire questa realtà familiare oscura, un vero segreto che ha cambiato radicalmente la vita e il carattere di Silvia.

 

OSSERVAZIONI SUL ROMANZO

 

Un romanzo a quattro mani è decisamente un esperimento letterario assai originale ed insolito, soprattutto se realizzato da un autore particolare come Pavese, famoso per il suo carattere riservato.

L’alternarsi delle voci e dei punti di vista di Silvia e Giovanni non dà però un senso di discontinuità, al contrario arrichisce la narrazione, che risulta fluida, ben articolata, con un continuo rimbalzare degli argomenti dall’uno all’altra e viceversa, in un perenne mutare di prospettive.

I due protagonisti rivelano, ciascuno a suo modo, un’inquietudine profonda e un male di vivere tormentoso.

Giovanni apre il romanzo ed appare immediatamente estraniato.

Silvia l’ha lasciato da qualche mese: ” chi s’era perduto ero io e non mi vedevo più intorno cosa che conoscessi” (p.3). Solo in seguito lei gli chiederà di accompagnarla a Maratea, una terra che Giovanni non conosceva, una terra legata ad usanze antiche, magiche (si dirà che Giustino veniva curato con gli scongiuri) e ancorata a una mentalità arcaica.

Anche la gente risulta chiusa, impenetrabile come Silvia, le cui radici “cieco sangue ancestrale”(p.49), affondano comunque in quel mondo.

“Silvia era nata di terra e di sangue”(p.27).

Lo straniamento e il disagio di Giovanni riappaiono continuamente tra le pagine: “ero entrato in un mondo di passato e di sangue, di cose compatte e ignote, come si entra nel letto di un altro”(p.15).

Giovanni percepisce nella famiglia qualcosa di oscuro, ma ancora non conosce tutto, pensa allo sconvolgimento per la morte di Giustino, credendolo sempre fratellastro di  Silvia.

 La sua reazione diviene però rancorosa, di chiusura: ” Avrei voluto essere solo, essere chiuso nella stanza e che tutto finisse – uscir fuori un mattino e ritrovare solo Silvia – come se nulla fosse stato.”

“Mi nacque un profondo rancore per Silvia, per tutti, perché capii ch’ero stato all’oscuro, e che senza volerlo l’avevo tradita in qualcosa.”(p.26-27)

La solitudine, tema pavesiano, l’incomunicabilità sembrano pervadere i due protagonisti che di fatto appaiono estranei l’uno all’ altra: lei non rivela apertamente il suo segreto a Giovanni, ma si riveste di bugie, lui è continuamente estraneo, indifferente e lo si nota chiaramente quando si  riflette in uno dei numerosi specchi della casa natale di Silvia:“…e adesso che c’ero non sapevo che fermarmi davanti a uno specchio e chiedermi che cosa facesse quest’uomo in questa casa”(p.37).

Giovanni arriva a  prendere brutalmente Silvia, mostrando la medesima scena già narrata da lei dal proprio punto di vista, come se l’unica pseudocomunicazione rimasta fosse quella fisica, nel suo aspetto anche bestiale, addirittura cannibalesco (Giovanni morderà a sangue Silvia sul collo).

Pietà, indifferenza rimangono: “Mi cadde ogni smania di farla parlare e confidarsi.”(p.48)

Nel ricordare le origini di Silvia, in quella terra mitica , evocativa – pullulano gli oggetti mitici o sacrali nel racconto: la festa, il fuoco, l’infanzia, il sangue, la terra, la morte, la rupe, il mare, tutti elementi che Pavese studiava e trasfigurava poi alla luce del mito – Giovanni ripensa alla sua infanzia.

“Ero nato in campagna, questo sì, ma la mia campagna era qualcosa di fantastico e lieve, qualcosa di sognato in città, che non mi aveva dato sangue. […] …accoglievo negli occhi vigneti e colline, ma fin dall’inizio sapevo che il mio destino, la mia vita sarebbero stati in città, con altra gente, e avrei smesso il dialetto e salito scale e guardato da finestre su viali, come le finestre di tutte le Silvie che conobbi.”(p.50)

Il contrasto città/campagna – altro tema pavesiano – fa la sua comparsa, mentre la campagna è il luogo del mito, la città è il territorio di Giovanni, ma anche quello in cui Silvia, fuggita dal suo paese selvaggio, va incontro a esperienze nuove e a diverse conoscenze.

Alla fine Giovanni capirà il terribile segreto di Silvia e la trasporterà in una dimensione differente:“La casa, il cortile e la campagna contenevano una

Silvia immutabile e antica, cui potevo pensare senz’affanno né dolcezza. Mi bastava sentire e assorbire quant’era grande e diversa e familiare quella realtà che l’aveva fatta e cui lei, pur dibattendosi, anzi perché ci si dibatteva, veniva ad appartenere sempre più. Poter fare a meno di lei perché tanto ero giunto a toccare qualcosa di più profondo della sua presenza, mi liberava e mi saziava.”(p.63)

Il romanzo si chiude  con Giovanni che esce nella notte, in un’atmosfera di tensione e di sospensione, scosso dalla verità che ha scoperto.

Nel progetto originario avrebbe dovuto continuare con la vita di Silvia e dell’avvocato fuggiti in città, con un amore tra Giovanni  e Flavia, la migliore amica di Silvia, con il suicidio di Silvia.

Di fatto l’opera può ritenersi conclusa comunque: il segreto è stato svelato, rimane una carica emotiva notevole soprattutto per l’asprezza dei temi  trattati.

Accanto a Giovanni si delinea la figura di Silvia, presentata dalla Garufi in piena assonanza stilistica e tematica con l’arte di Pavese.

Silvia è una donna che a tredici anni ha vissuto, a Maratea, una terribile e traumatica esperienza: non solo ha dovuto subire le attenzioni perverse del patrigno, ma durante la gravidanza la madre – in conformità con la chiusa mentalità del paese – l’ha tenuta segregata nella sua stanza con le persiane inchiodate e l’assoluta impossibilità di comunicare con chiunque, e infine le ha portato via Giustino appena nato.

Il rapporto di Silvia con la  madre è conflittuale, la definisce ” un ragno, una bestia acquattata” (p.9), anche se, per certi versi, costituisce il suo alter ego, almeno nelle parole del patrigno e in certe osservazioni di Giovanni sulla loro somiglianza “La stessa calma, la stessa prontezza”.(p.29)

Il gioco di specchi, già evidenziato per Giovanni, continua per Silvia ed entrambi i narratori poi riflettono i loro punti di vista da un capitolo all’altro.

Silvia convive col il suo segreto, è disillusa: “C’era solo da essere vivi, giorno per giorno come ignorando che tutto era accaduto e persino che cosa era accaduto, perché non ci fosse più speranza.”(p.9)

Silvia sa di non potersi più innamorare di nessuno e l’unica persona cui riesce a raccontare la sua storia è la sua amica Flavia, come se certi argomenti potessero essere svelati solo tra donne:“…quando tacqui era come se mi fossi dissanguata.”(p.13) Osserva Silvia.

Silvia è colei che ritorna nella sua terra d’origine dopo aver fatto esperienze differenti – il tema del ritorno è molto pavesiano, basti pensare a La luna e i falò –adesso deve assistere alla morte del figlio mai riconosciuto e si ritrova, come Giovanni, estraniata, diversa, incapace di instaurare una relazione normale con Giovanni, come con qualsiasi altro uomo.

Con un castello di menzogne ha sempre nascosto la verità, l’ncomunicabilità pone i due su piani diversi e quando Silvia parla, cercando di spiegare a Giovanni il motivo per cui l’ha lasciato, le considerazioni sono desolanti: “Non lasciarti significava trascinare anche te in fondo al pozzo. […] Parlo sempre per farmi chiaro, quando mi capita di parlare, ed è come se prendessi una boccata d’aria e poi giù di nuovo nel pozzo.”

“Sono chiusa, oscurata. Mi sembra di rimestare un pozzo nero.”(pp.45 e 47)

Una critica psicoanalitica svelerebbe sicuramente elementi interessanti.

Lo spettro del suicidio occhieggia dall’alto della rupe.

Il segreto di Silvia è fatto di sangue e di sesso, è, nella sua essenza, mitico, selvaggio come la sua terra, ancestrale e quindi è difficile da rivelare ed imposta e plasma la sua personalità, il suo orrore di fondo per gli uomini, l’istinto di fuga.

“Una volta confidai a Flavia tutta la mia storia. E da quel momento fu chiaro in me che l’orrore esisteva per me sola e che mai avrei avuto un punto fermo sulla terra, qualcosa che io potessi rispettare.”(p.60-61)

La disperazione di Silvia è senza rimedio – di qui le premesse  del suicidio – e una vita normale le viene per sempre preclusa.

 

Nel contesto dell’opera pavesiana Fuoco grande è contemporaneo ai Dialoghi con Leucò e alle poesie di La terra e la morte, opere dedicate alla Garufi, con la quale Pavese ebbe una relazione amorosa.

Il romanzo non presenta temi particolarmente nuovi rispetto a quelli usualmente trattati da Pavese, semmai vi è qui un’asprezza inconsueta d’argomenti, ma è comunque un interessante esperimento letterario, che merita una sua considerazione e rivalutazione critica.

 

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

 

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908- Torino 1950) scrittore italiano. All’attività di romanziere e poeta affiancò quella di saggista e traduttore  e fu tra i fondatori della casa editrice Einaudi.

Bianca Garufi (Roma 1918) scrittrice d’origine siciliana. A vent’anni scrive le prime poesie cui seguono molte altre, raccolte in “Se non la vita. Poesie anni 1938-1991”. Ha scritto il poema “La spirale e la sfera”; il suo primo romanzo, inedito, s’intitola “Libro postumo”; ne “Il fossile” (1962) porta a termine la vicenda dei protagonisti di “Fuoco grande”. L’ultimo suo romanzo s’intitola “Rosa Cardinale” (1968).

Nella Roma occupata dai nazisti la Garufi partecipa alla Resistenza, nel 1945 lavora come segretaria nella sede romana della casa editrice Einaudi e qui incontra Pavese.

Intensa la sua attività di traduttrice dal francese, importanti dagli anni Sessanta i suoi viaggi e soggiorni a Parigi, New York,Estremo Oriente.

Dagli anni Settanta si è dedicata all’attività di psicoterapeuta junghiana ed ha scritto saggi sulla psicoanalisi junghiana.

 

Cesare Pavese e Bianca Garufi, Fuoco Grande, Torino, Einaudi 2003. A cura di Mariarosa Masoero. Il volume riprende la princeps del 1959 ed è molto ben curato filologicamente. Lo completano l’introduzione, la nota al testo, la nota biografica, la bibliografia, la ricezione critica, un’appendice di testi e due disegni di Cesare Pavese. Il romanzo si articola in undici capitoli.

 

In rete:

Cesare Pavese – a cura di Marco Ferrando.

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