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Torino, la città più cantata? [#5]

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Napoli, Roma, Firenze, Venezia, Bologna, Genova? O forse è Torino la città più cantata d’Italia? Ed è proprio questo il punto di vista che adotterò principalmente: guardare Torino in musica da molte città, regioni e nazioni diverse, ma anche dall’interno, dai torinesi o dai piemontesi stessi. Poco per volta, dacché c’è proprio tanto da dire. Da un paio di anni ho iniziato le mie ricerche e ho già raccolto centinaia di canzoni e di brani musicali dedicati o variamente titolati e ambientati a Torino, in numero cospicuo anche dall’estero, perfino da luoghi remoti come il Mozambico, l’Australia, il Brasile e molto altro.
 
Questo è il quinto articolo.
 
OLIVETTI DREAMING
 
A saperlo, per molte cose Torino è o, meglio, sarebbe famosa nel mondo. Faccio il primo esempio che mi viene in mente: fino a Daniel Craig, passato a tracannare birra Heineken grazie a un accordo da 30 milioni di euro, l’agente britannico 007 ha sempre ordinato e bevuto il suo Martini cocktail "Shaken, not stirred", agitato, non mescolato. Anche se “Wermut” è il termine tedesco per indicare l’artemisia maggiore, il vermut fu inventato nel 1786 da Antonio Benedetto Carpano a Torino. Torino ha inventato l’aperitivo e con esso l’aperitivo più famoso del mondo, il Martini, quello della Martini & Rossi, un marchio fondato nel 1863 a Torino. No Martini, no party…  Un sinonimo ormai di stile, glamour e gioia di vivere che ha dato anche nome ai Pink Martini, una piccola orchestra" di Portland (Oregon, US) fondata nel 1994 dal pianista Thomas M. Lauderdale. Mescola molti diversi generi musicali come musica latina, il lounge, la classica, il vintage e il jazz, con testi cantati in inglese, spagnolo, francese, italiano, portoghese, giapponese, napoletano, arabo, greco e turco. Del resto anche il caffè espresso, noto e richiesto in tutto il mondo, è nato a Torino nel 1884, in seguito all'invenzione della macchina per produrlo, brevettata da torinese Angelo Moriondo … La Lavazza, una delle più importanti produttrici di caffè tostato in Italia e nel mondo è stata neanche a dire  fondata nel 1895 a Torino da Luigi Lavazza. Lo sa bene il brasiliano Chiquinho Timoteo, che ha composto un brano dal titolo “Expresso Torino”. Ma tornerò sul discorso degli aperitivi e dei bar e dei caffè a Torino…  Se no mi lascio prendere la mano e scrivo tutto un differente capitolo. Insomma, Torino è famosa nel mondo più di quanto non si sappia. Ogni volta che qualcuno nel mondo ordina un cocktail a base di Martini (se poi è un Vesper…) o un espresso, per esempio, non sa, ma sta rievocando Torino.
Un’altra delle cose famose italiane nel mondo è (è stata) la Olivetti, come cantano i danesi Shu-bi-dua, gruppo di musica pop formatosi a Copenhagen nel 1973. E la Olivetti, si sa, è di Ivrea, Torino. Il testo del brano “Parliamo italiano” è un elenco (anche se un tantino maccheronico e sconclusionato) di parole che, fortunatamente, vanno oltre mamma mafia pizza spaghetti e mandolino… No, mi correggo, gli spaghetti e la mamma ci sono e anche “Berlusconi”…
 
Amore che cosa è?/ Una Fernet Branca piu… (no no no) / Amore
che cosa è  / Una bella donna / Oliolivo Olivetti / Osso buco e spaghetti /… questo è l'Italia per me…  / Stuzzicadenti!
/ Maserati Alfa Romeo Lamborghini / e un Fiat Uno / mi amore automobile / parliamo italiano / mamma mia / oregano… / questo é L'Italia per me / Questo è  L'Italia per me…
 
Olivetti… Per approfondire il racconto di questa incredibile esperienza industriale consiglio alcune trasmissioni televisive e documentari facilmente reperibili: “Camillo: alle radici di un sogno”, uno spettacolo teatrale di Gabriele Vacis e Laura Curino, la puntata de “La Storia siamo noi” (di Giovanni Minoli, direttore di Rai Scuola e Rai Educational, pubblicista e conduttore di prim’ordine, torinese… ma così rasento lo sciovinismo), “Adriano Olivetti, l’imprenditore rosso”, “Quando Olivetti inventò il PC” di History Channel e “Adriano Olivetti e Steve Jobs: la passione per il futuro” (Correva l’anno, puntata del 21 giugno 2011).
La Olivetti, anche grazie alla sua gestione aziendale innovativa, alla cultura e all’estetica del prodotto, si affermò in Italia e all’estero tra gli anni 1930 e 1960 con le sue addizionatrici, fatturatrici e varie macchine contabili, le telescriventi, le macchine per scrivere, i primi calcolatori elettronici. Ovviamente non mancano le Olivetti alla Boston Typewriter Orchestra, un ensemble bostoniano di dattilografi e musicisti che fanno musica esclusivamente con le macchine da scrivere.
Olivetti si avvalse fin dagli inizi dei designer in un’epoca in cui ancora nemmeno si parlava di design. La Studio 42 a esempio fu realizzata con il contributo dell'ingegnere Ottavio Luzzati, del pittore Xanti Schawinsky e degli architetti Figini e Pollini; la Lettera 22 e la Lexicon 80 vennero incluse nella collezione permanente del Museum of Modern Arts o MOMA di New York; dal 1958 entrò in Olivetti anche Ettore Sottsass, marito di Fernanda Pivano, diplomatasi e poi lureatasi a Torino, quindi amico con sua moglie di scrittori come Hemingway e di scrittori della Beat Generation come Ginsberg, Kerouac e Corso. Sottsass disegnò tra l’altro la ormai mitica Valentina. Rimando a “La bella società: Adriano Olivetti ed Ettore Sottsass”, dell’ottima trasmissione radiofonica Destini incrociati (Radio 24).
Negli anni ’50 la Olivetti fu leader mondiale anche nell'elettronica italiana con il progetto Elea, il massimo supercomputer dell’epoca. E fu sui computer della Olivetti che verso la fine degli anni ’60 vennero fatte le prime esperienze di musica elettronica computerizzata con il contributo del compositore Pietro Grossi.
Con il contributo dell’ingenere Mario Tchou l’Italia e la Olivetti non furono lontane dal primato nella creazione perfino del personal computer. Tchou morì però prematuramente in un incidente stradale nel 1961.
Ancora oggi tornano le ombre di un complotto (La Stampa, TuttoScienze, un articolo di Mario Pivato del 10 dicembre 2011): il sospetto è che si sia trattato di un altro caso Mattei. Secondo la semplice cronaca l’inventore del primo computer commerciale fu ucciso da un incidente, ma secondo altri si verificò un incidente pilotato da “attori” consapevoli di scenari che si sarebbero spalancati, se Tchou avesse avuto carta bianca nello sviluppo dei calcolatori. Il suo Elea 9003 del ’59 fu il primo computer interamente transistorizzato destinato al mercato e fu un successo, perché più piccolo dei concorrenti IBM, più potente, più comodo, più bello grazie alla consolle disegnata da Ettore Sottsass, che ricevette il premio Compasso d’Oro (tutto questo vent’anni prima dell’affermazione di Steve Jobs che il design è l’anima del prodotto). Nel 1961 Tchou, insieme al matematico pisano Mauro Pacelli, vuole  portare sul mercato un nuovo prodotto all’avanguardia. Da Borgolombardo a Ivrea, nei pressi di Santhià, l’auto sulla quale viaggiava si schiantò. Tchou morì sul colpo insieme all’autista. Secondo Giuseppe Rao, consigliere della Presidenza del Consiglio dei ministri, durante la Guerra Fredda quella dei computer era considerata “tecnologia sensibile”, decisiva per le applicazioni militari e nella corsa alla conquista dello spazio. Lasciare a Mario Tchou il compito di sviluppare in Italia la culla dell’informatica avrebbe potuto compromettere la stabilità tra i blocchi, poiché nel  nostro paese gli USA operavano già da tempo al fine di evitare che al governo vi andasse il partito comunista. L’intelligence americana paventava che questa tecnologia potesse scivolare oltre la cortina di ferro o più oltre ancora. Tchou, infatti, era figlio di un diplomatico, Tchou Yin, che lavorava in Vaticano presso il Consolato della Cina imperiale (un altro paese “pericolosamente rosso”). Essere paese leader del mercato dei calcolatori era in ogni caso la grande scommessa delle aziende americane. Uscito di scena Tchou l’Italia perse per sempre l’appuntamento con i computer e la Olivetti, su pressione americana, fu  costretta a vendere alla General Electric il prezioso ramo elettronico. Così ci ha ricordato Mario Pivato.
 
 
La Olivetti divenne uno delle industrie più all’avanguardia per le sue fabbriche in Italia e all’estero. Fabbriche le cui architetture erano ammirati esempi di integrazione nel panorama naturale “in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell'uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza". Ben sappiamo a Torino, della mia generazione, quanto fosse diverso l’operaio Fiat dall’operaio Olivetti.
Adriano Olivetti, figlio del brillante industriale Camillo, ebreo poco osservante, ebbe una rigorosa formazione socialista di stampo riformista, calvinista e valdese, si oppose sempre alle ingiustizie fin dal suo impegno nell’antifascismo collaborando con uomini del calibro dei fratelli Rosselli, di Ferruccio Parri, di Leone Ginzburg, di Filippo Turati e Sandro Pertini. Il dover far per gli altri fu e la giustizia furono al centro di ogni azione intrapresa da questo imprenditore che, provata sulla sua pelle la fatica del lavoro alienante e ripetitivo in fabbrica, cercò di fare sempre gli interessi dell’azienda attraverso quelli degli operai. Nelle sue fabbriche di cristalli e di ferro l’operaio, messo nelle condizioni di lavorare nel migliore degli ambienti, riusciva a vedere il cammino del sole. Gli operai che erano stati sottratti a un destino rurale dovevano riuscire a vedere ancora la bellezza degli spazi circostanti, così come il sorgere e il calare del sole. Su quanto fosse importante assistere al sorgere e al calare del sole nella vecchia società contadina, viene in mente un cortometraggio della serie “Piemonte Stories”, quello di Stefano Scarafia dedicato al poeta della Grappa Romano Levi di Neive: l’unica volta che andò al cinema, racconta, fu un pomeriggio di cui ancora ricordava per esserne uscito col buio, dispiaciuto per quell’unica volta, evidentemente per lui straniante, di non aver potuto vedere quel tramonto dalla sua terra. Così era la fabbrica di Ivrea, uno dei più rinomati simboli aziendali, realizzata dagli architetti Figini e Pollini. Anche lo stabilimento di Pozzuoli, realizzato negli anni cinquanta da Luigi Cosenza, è un esempio di integrazione nel panorama naturale della costa napoletana. Durante la sua storia, la Olivetti si avvalse, per la costruzione di stabilimenti, show-room, uffici e negozi, di famosi architetti e designer.
Alla Olivetti, detta l’Atene degli anni ‘50, benessere, bellezza e cultura vennero riconosciuti e promossi come stimolo alla produttività. Fu abolita la alienante catena di montaggio e ogni operaio,  tra le cosiddette isole, poteva seguire l’intero ciclo di costruzione della sua macchina. Olivetti progettò e fece erigere un intero quartiere residenziale per i suoi dipendenti e asili nido vicini alla fabbrica (e questo prima di ogni rivendicazione sindacale) con educatrici e personale specializzato per assistere i bambini dal mattino alla sera. Assicurò cure sanitarie gratuite per tutti e nove mesi di maternità a stipendio pieno, luoghi di ricreazione e perfino una biblioteca per gli operai (il lavoratore era libero di usufruirne anche durante le ore di lavoro, facendovi sosta). I migliori intellettuali del tempo e perfino poeti lavorarono alla Olivetti: Bruno Zevi, Furio Colombo, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Ottiero Ottieri, Luigi Fruttero, Paolo Volponi, Geno Pampaloni e altri ancora furono collaboratori, consiglieri, addetti all’ufficio personale. Tutti i dirigenti si formarono con gli operai per conoscere davvero il “buio del lunedì”…
Apro una parentesi… Qualcosa di simile accadde anche a Collegno (Torino) con il villaggio Leumann, un quartiere operaio edificato in stile Liberty alla fine dell'Ottocento per gli operai del cotonificio Leumann (anno di fondazione 1875). Oltre alle belle case, numerosi servizi all’avanguardia furono messi a disposizione dei residenti nel Villaggio, come l’asilo nido, una scuola con sei classi elementari, una stazionetta ferroviaria della linea Torino-Rivoli, l’ufficio postale, un albergo e altro. Napoleone Leumann non creò soltanto un'industria con un suo nucleo residenziale, “bensì un'area ben definita in cui lavoro, famiglia, tempo libero, istituzioni sociali e previdenziali erano strettamente connessi fra loro, formando un contesto socialmente evoluto ed efficiente. Al centro dei suoi obiettivi c’era una maggiore qualità di vita delle maestranze, sia sul lavoro che nella vita privata, con concreti vantaggi riscontrabili anche nell'ottima qualità che caratterizzò i prodotti del Cotonificio Leumann”. Il villaggio, integralmente conservato e recentemente restaurato, è attualmente ancora abitato da un centinaio di famiglie ed è stato elevato a Ecomuseo sulla Cultura Materiale della provincia di Torino.
Il poeta Giovanni Arpino vi dedicò una poesia, apparsa per la prima volta sulla rivista diretta da Ignazio Silone "Tempo Presente”, nel giugno del 1958.
 
BORGATA LEUMANN
 
La notte non portava consiglio
A noi, giovani, nei letti nuziali,
i baci allontanavano l’incerto domani,
il freddo dei muri nuovi, s’allietavano al crudo
risveglio dei cani pastori:
a un’altra tappa, verso le Alpi,
muovevano le greggi nelle aurore.
 
Laggiù, oltre il cavalcavia, era Torino
Con i richiami delle sirene,
"Le sei”, mi sospiravi, torpida,
e anche nelle stanze vicine
rimestavano acuti dialetti stranieri,
un orologio ritardatario
scuoteva il sarto veneto in soffitta.
Docile riprendeva anche lui
ad inseguire i debiti contratti.
 
Finché era estate nessuno pativa,
la polvere era d’oro sui sentieri
tra il granoturco, e il treno fischiando
volava via tra Roma e Parigi.
Ma era l’inverno con il fango
(e ti portavo in braccio, quando
Avevi calze di seta, e in cucina
Un giornale spiegato aspettava le mie scarpe)
Era l’inverno a tener lontano dal bar
L’operaio Fiat che nelle sue sere
finalmente ultimava coi fiammiferi
tutta per sé un’automobile intera.
 
Fuori era il vento della borgata Leumann,
nella bottiglia vuota si allungava
il riverbero della candela.
Veloci andavano gli aghi dei telai
Nel panno chilometrico, splendevano
I grandi vetri dei reparti notturni:
le operaie uscivano tardi
uomini le attendevano ad ombrelli.
 
Qui ti avevo portata a cominciare,
a ricompensa dell’amore giuratomi.
E solo nel caldo di segrete parole
Fu nostro quel promesso paradiso
Che avrei voluto darti.
Qui, anche per te, volli sapere
Fin dove potevo alzare la mano,
fin dove potevo dire:questo è mio
e questo sole e questa altezza di luce
e questo giudizio e questo grado di comodo.
 
Qui, insieme, noi che credevamo
d’essere toccati, soli, da una fortuna d’amore,
si cominciò a scambiare col mondo
una parola, un po’di sale, un saluto.
Il sarto veneto ci disse dei suoi paesi,
noi dicemmo di noi, e fu il principio.
 
 
Ma ritorniamo a Olivetti, a Camillo, certo, ma ancor più e in particolare a quell’Adriano Olivetti illuminato industriale dalle idee progressiste e sensibili ai diritti umani, fondatore del Movimento Comunità con lo scopo di creare l’ago della bilancia fra il centro (egemonizzato dalla Democrazia cristiana) e la sinistra (egemonizzata dal PCI), che si diede non poco da fare per creare, nella sua fabbrica di prodotti per l’ufficio, le condizioni di lavoro ideali per ogni suo operaio. Quell’Adriano di quando, nel passaggio dalla meccanica all'elettronica, si pose il  problema della riqualificazione del personale e di recuperare interamente il personale impiegato senza licenziare un solo operaio. Quell’Adriano Olivetti per il quale il ruolo dell'imprenditore si intrecciava con quello del teorico, dello scrittore, del mecenate, dell'editore, del politico, dell'urbanista, dell'esteta. Lontano mille miglia dalla febbrile voracità dell'accumulazione, dall'ignorante avventurismo dell'azzardo, dalla smaniosa ostentazione dello spreco che tuttora contagiano tanti altri imprenditori (Domenico De Masi). E questo non solo nella fabbrica di Ivrea, ma possibilmente in tutte le sue officine sparse per l’Italia e per il mondo.  Ecco perché non mi sono mai spiegato questa canzone di Giovanna Marini, Padrone Olivetti. Ma quello fu il cosiddetto autunno caldo e Adriano, il sognatore, l’utopista, l’imprenditore rosso, era già prematuramente scomparso dal 1960; e forse anche alla Olivetti le cose stavano già da un pezzo cambiando. Non sono riuscito a conoscere ancora il retroscena di questa canzone della Marini. Ma il rispetto per Adriano Olivetti, da parte dei suoi operai come di tutta la città di Ivrea, fu sempre totale e incondizionato. Quando morì, per un attacco di cuore, in treno, il 26 febbraio 1960, per la prima e credo unica volta venne sospeso perfino lo storico  Carnevale di Ivrea. http://www.storicocarnevaleivrea.it/?page_id=28 (se volete ascoltare e scaricare l’inno e le pifferate di questo carnevale con la famosa e spettacolare Battaglia delle Arance, un evento che rievoca la ribellione popolare alla tirannia, riconosciuto dal 1956 come  manifestazione italiana di rilevanza internazionale).
 
Giovanna Marini
Padrone Olivetti
 
Padrone Olivetti, un nostro compagno
Ha perso la testa s'è andato ad ammazzare
Tu potrai dire che era malato
Ma noi la sappiamo la verità !
 
Padrone Olivetti, una macchina un uomo
Nei tuoi progetti han la stessa funzione
Tu vedi solo la produzione
E quel che si guasta si deve buttar!
         
Padrone Olivetti, la tua baracca
Resterà  in piedi, finchè ti si ascolta
Le tue invenzioni sono la morsa
Che noi soltanto potremo spezzar
 
Dividi e comanda: è il motto di sempre
Di tutti i padroni di questa terra
La nostra vita è tutta una guerra
A stare attenti a non farci fregar!
 
Tu ci hai divisi in categorie
Chi è più capace guadagni più
Ma il tuo discorso
Davanti alla pressa
È una menzogna non regge più!
 
E quest"inganno, uno dei tanti
È il loro giogo per farci tacere
Siam tutti uguali senza il potere
E tutti assieme dovremo lottar
 
 
Preferisco l’omaggio Olivetti Jerk dei Ladytron. I Ladytron sono un gruppo musicale electroclash originario di Liverpool che ha preso il nome da una  omonima canzone dei Roxy Music e che fa uso di suoni retrò ricavati da  sintetizzatori d'epoca. I loro testi sono dominati da racconti di vita quotidiana, alcune volte in bulgaro, lingua della cantante Mira Aroyo. Olivetti Jerk è però un brano electropop strumentale, allegro, che infonde l’ottimismo tipico della musica lounge, anzi space lounge di un’epoca, gli anni ’50 e ’60 del Novecento, che fu vissuta all’insegna del futuro ideale, oggi declassato a ingenuo retrofuturo.
Proviamo a fare una rapida rassegna della musica intitolata a Olivetti e ai suoi prodotti. Olivetti è il titolo di una canzone dei Breezy Porticos di Denver (Colorado). Olivetti Letter è il nome di una band di Kansas City. Olivetti si intitola un brano del chitarrista brasiliano Jon Neto. Enzo Borriello, pittore e cantautore napoletano, ha scritto “L’ingegnere (in memoria di Adriano Olivetti). Pierlo, fondatore della Upitup records, ha intitolato un suo album elettrofunk del 2010 “Olivetti Prodest”. Le Voci del Tempo (Marco Peroni, Mario Congiu e Mao), hanno raccontato la storia del “sognatore” Olivetti in uno spettacolo messo in scena in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario della sua scomparsa. Massimo Barbiero, Maurizio Brunod, Laura Conti sono stati autori e protagonisti di un concerto jazz dedicato al cosiddetto “imprenditore rosso”, improvvisando un blues finale, “Un blues per Olivetti”…
L’artista lituano George Maciunas ha creato “In memoriam to Adriano Olivetti” (1963), eseguito durante il primo concerto Fluxus a Wiesbaden. Questo uno stralcio della partitura:  “Ogni performer sceglie un numero da un rotolo usato di carta da calcolatrice. Il performer si esibisce ogni volta che il numero compare in una riga. Ogni riga indica un battito di metronomo. Possibili azioni da fare ad ogni apparizione del numero: 1) togliersi o mettersi la bombetta 2) fare suoni con la bocca, labbra, lingua 3) aprire e chiudere ombrelli, etc.”.
Ma la composizione per me più importante che bisogna conoscere è il “Computer concerto on GE-115” in cui  l'elaboratore elettronico GE-115  (Olivetti – General Electric) è stato usato da Pietro Grossi come esecutore e sorgente sonora. Pietro Grossi (Venezia 1917 – Firenze 2002) è stato un compositore, programmatore, insegnante e virtuoso violoncellista nell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Pioniere della musica elettronica e della computer music, fondatore dello Studio di Fonologia di Firenze “S2FM”, sua la prima cattedra ‘ufficiale’ di musica elettronica presso il Conservatorio di Firenze (1965),  Pietro Grossi ha avuto intuizioni che hanno anticipato i tempi in svariati campi, contribuendo alla diffusione della tecnologia che oggi è alla portata di tutti nella creazione musicale. Chiunque oggi faccia e divulghi musica attraverso il suo computer deve qualcosa a Grossi. Per esempio si deve a lui l’idea di poter lavorare a distanza su un archivio di musica accessibile a chiunque via telefono, come nel futuro di internet, del midi e dell’mp3. Sperimentò le prime tecniche di “taglia e cuci” con il nastro (le stesse che saranno teoricamente alla base della cosiddetta “mouse music”), realizzando, nella fase che denominava “ante bit”, interessanti opere di musica concreta. Scrisse un ormai introvabile testo dal titolo “Musica senza musicisti” (proprio come oggi si può fare col solo ausilio di un computer e una tastiera midi). “Il computer ci libera dal genio altrui e accresce il nostro”, disse. E molto moderno fu il suo atteggiamento non conservativo, tanto da considerare i suoi prodotti materiale da condividere, e aprire a ulteriori manipolazioni come negli odierni progetti open source. Grazie a collaborazioni con Olivetti e IBM, è stato tra i primi al mondo a far suonare un computer. Nel 1967 fece le prime esperienze ufficiali di computer music presso la Olivetti General Electric a Pregnana Milanese: “…Ho preso il quinto Capriccio di Paganini, ho perforato le schede e, fatto il pacco di schede, consegnate al computer, il computer le suonava. Il computer ha suonato subito alla perfezione il testo che gli avevo dato, e immediatamente dopo, ho potuto fare di quei suoni quello che volevo. Questo per me era un salto incredibile. È stata un'emozione straordinaria…” In seguito   promuoverà l’istituzione della Divisione di Informatica Musicale al CNUCE, istituto pisano del CNR.  Il disco del 1967 realizzato da Grossi con un computer GE-115 fu distribuito ai dipendenti Olivetti come regalo di capodanno. Era un 33 giri 7 pollici includeva non solo brani di Bach e Paganini (lato A), ma anche tre tracce originali (sul lato B): Mixed Paganini, Permutations Of Five Sounds, Continuous.
 
Torino ha comunque avuto un ruolo chiave nello sviluppo della musica elettronica anche senza la Olivetti. Oggi si intende per elettronica un po’ di tutto e, soprattutto, certa musica da discoteca, techno e dintorni. Non di quest’ultima intendo parlare, non ora, ma anche in questo caso posso anticipare che Torino ha la sua rilevanza, come gli viene riconosciuta fin dal titolo anche dall’estero dall’argentino Carlos Borrego nella sua traccia Torino electrónico. Di sperimentazione a Torino se ne fa da sempre e negli ultimi anni, con la creazione e diffusione di mezzi elettronici alla portata di tutti, la scena si è molto complicata, a volerla menzionare tutta.
A proposito di mezzi alla portata di tutti, non solo i polacchi Mikro Orchestra Project (per altro esibitisi qualche anno fa proprio a Torino per la prima volta in Italia), abbiamo anche in Italia chi fa o ha fatto uso dei game boy in musica. Tra i fautori della “micromusic” a 8 bit made in Italy Buskerdroid, Microman, Tonylight, Arottenbit, Kenobit… Arottenbit e Buskerdroid sono gli autori di un brano intitolato “Torinouta”… Forse Torino c’entra, forse no… Tori no uta (Bird’s Poem), di Jun Maeda e Shinji Orito, è una japanese trance song famosa e varie volte rifatta e anche plagiata. Ma a me piace l’idea di vedervi, scritta così, anche  un accenno al “torinauta” come a un navigatore delle notti bianche torinesi. Del resto bisogna fare attenzione… Hanano Yoni Torino Yoni di Shinji Miyazaki (io ho la bella versione di EunSook Kye) è evidente che non parla di Torino città… E però, che anche qualche giapponese abbia dedicato qualcosa a Torino non è affatto un’idea peregrina. Lo ha fatto Kazuhito Yamashita nel suo “Ricordo di Torino, op. 102” per chitarra. Ma a me piace divagare e anche un po’ scherzare…
Torino ha avuto e continua ad avere i suoi compositori elettronici. C’è tutta una scuola che inizia da Enore Zaffiri e porta a compositori contemporanei come Giulio Castagnoli che merita di essere conosciuta. Per restare tra i pionieri, Enore Zaffiri (Torino, 1928), che dal 1965 ha lavorato anche con Pietro Grossi, ha fondato lo Studio di Musica Elettronica di Torino (SMET) in collaborazione col pittore Sandro De Alexandris e il poeta visuale Arrigo Lora Totino, incrementando la diffusione del nuovo linguaggio musicale elettronico (altresì multimediale) in Italia – negli anni sessanta e settanta – anche attraverso l'uso del sintetizzatore come strumento da concerto ed è entrato nel novero dei maggiori artisti italiani di Computer Art. Tra i suoi primi allievi ricordiamo i nomi di Gilberto Bosco, Gianfranco Vinay, Ferruccio Tammaro, Lorenzo Ferrero, divenuto un esponente di spicco della nuova avanguardia musicale italiana degli anni '80.
Ma esiste anche musica elettronica intitolata a Torino? Come no! L’inglese David Cunningham (ha suonato con John Cage, This Heat, David Toop, Michael Nyman, Ute Lemper, Pan Sonic, Peter Gordon, Michael Giles…) ha registrato nel 2006 a Torino una performance per chitarra elettrica, footpedals e laptop tutta intitolata alla città. Lo stesso ha fatto Paul Beauchamp (aka Gullinkambi) un musicista elettronico (definito più volte di genere "dark-ambient", ma in verità ben più eclettico, spaziando tra noise, industrial, minimal music, tribal/ritual eccetera) venuto da Winston-Salem, USA, in Italia, dove si è trasferito a vivere; e più esattamente a Torino. Paul Beauchamp ha partecipato a numerosi progetti interessanti dell'underground elettronico: dal tribalismo rituale elettronico dei Sikhara al jazz-core di Steve Mackay (già sassofonista degli Stooges di Iggy Pop), dal noise dei Bastard Noise alle atmosfere introspettive, oscure e malinconiche di Blind Cave Salamander con Fabrizio Modonese Palumbo dei Larsen, Julia Kent (Antony and the Johnsons) e Marco "DsorDNE" Milanesio. È inoltre membro del collettivo internazionale e discografico dell'americana Radon e dello studio O.F.F. di Torino. Ha suonato con molti bei nomi dell'Avanguardia internazionale tra cui, oltre al già citato Steve Mackay, Nobody Scott (Psychic TV), Kamilsky (The Residents + Lydia Lunch Band). Drones, loops, soundscapes e atmospheres di Paul Beauchamp semplicemente intitolati al luogo, al giorno e al mese della loro performance (September 29, 2004, Teatro Juvarra oppure November 29, 2004, Antidocks, Torino…) per me sono un altro pezzo di musica a e per Torino.
Ma il brano elettronico che più dovrebbe inorgoglire Torino è “Dio fa” (So they say in Turin) del genio Frank Zappa, realizzato al Synclavier e pubblicato sull'album postumo Civilization Phaze III. Beh, adesso sappiamo che Torino nel mondo Torino è diventata anche famosa per questa esclamazione più che bestemmia (anzi, bestemmia non lo è proprio); infatti, di per sé, non reca alcuna offesa a nessuno. Un’espressione così tipica che farà cantare ai Fucktotum, insieme a Enzo Maolucci, una canzone su Torino dal titolo alquanto emblematico: “Nella terra del Dio Fa”. Ma questa è un’altra storia…
Va bene, concludo e passerò al prossimo capitolo. Devo solo decidere da quale altro argomento ripartire… Credo di averne almeno un’altra ventina.
 
Villaggio Leumann – Collegno (Torino), l’ingresso.
 
Pietro Grossi

 

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