KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Le buone idee…

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LE BUONE IDEE si scelgono spesso un teatro alternativo per andare in scena. Quel giorno di ormai quasi vent'anni fa, la mansarda della zona Buon Pastore mi sembrava uno di quei garage della Silicon Valley dove nascono le idee che rivoluzionano il mondo della tecnologia. Eravamo tutti più giovani e ricchi di sogni, sia i ragazzi che avevano creato Kult Underground, sia il giornalista che li intervistava (ovvero il sottoscritto). Faccio questo lavoro da 26 anni e non mi è mai piaciuto scrivere in prima persona. L'ho evitato quasi sempre come fosse un vigile urbano stronzo, ma stavolta un'eccezione la faccio volentieri. Perché il modo migliore per festeggiare una ricorrenza bella come il numero duecento, secondo me, è metterci un'emozione. Io conosco le mie, e quindi vi parlerò di come l'ho vissuta io.
 
Ricordo molto bene il luogo, una mansarda dipinta di bianco. Ricordo anche le facce dei ragazzi, è c'è un motivo preciso. Sul 'Resto del Carlino' avevo scritto da poco un articolo sul primo provider modenese e sulla rete civica telematica che sarebbe diventata Monet, mi stavo laureando con una tesi su William Gibson e il Cyberpunk che mi ero scelto per passione e non per calcolo scolastico, insomma più che un'intervista, parlare con i creatori di Kult si rivelò per me una di quelle esperienze elettriche che vivi quando incontri gente che conosce la tua lingua segreta, incomprensibile a quasi tutti gli altri, e che ha le tue stesse passioni. Gente che ti sembra di conoscere da anni, anche se non li avevi mai visti prima. E veniamo alle facce: ad aumentare la sorpresa c'era il fatto che, almeno ai miei occhi, uno dei ragazzi (Gianluca Meassi) somigliasse in modo impressionante proprio a William Gibson. A 22 anni non pensi che dietro quasi tutto ci sia il marketing, e puoi commettere l'errore di 'venerare' i tuoi idoli e le loro immagini. Poi cresci, e ti passa. Se non ti passa, è meglio se ti preoccupi.
Oggi posso confessarlo: andando a fare l'intervista, temevo di trovarmi di fronte un gruppo di smanettoni-secchioni usciti da 'La rivincita dei Nerds', e invece no. A parte qualche tic linguistico (a Marco Giorgini l'ho sempre detto, che quando parla sembra che stia programmando o scrivendo del codice…), era tutta gente come me. Normale, sempre che io sia normale.
In realtà erano speciali. Loro non lo sapevano, ma stavano anticipando nel loro piccolo, con la rivista nella quale avrebbero riversato gli interessi loro e calamitato quelli di tante altre persone, l'avvento dei social network. Kult Underground era già un piccolo facebook in miniatura, con qualche anno d'anticipo. I mezzi non potevano essere gli stessi, ma lo era l'idea di fondo: usare il massimo della tecnologia disponibile e personalizzarlo, appropriarsene per dargli la forma delle proprie passioni, e vedere l'effetto che faceva agli altri. “Quello che volevamo fare _ racconta Marco Giorgini in quell'intervista _ era portare la multimedialità al livello della gente comune. Purtroppo da noi il computer è visto solo come uno strumento di lavoro o come un videogioco, e invece le possibilità creative sono immense”. Oggi lo pensano, o meglio lo sanno tutti, allora sembrava quasi fantascienza.
Nei confronti di Kult io mi sento in debito, non solo per quella prima, bella intervista. Sulla quale un collega (per sua fortuna non ricordo chi, altrimenti il nome lo scriverei) fece un titolo esemplare per superficialità, a conferma del fatto che la lingua che usavamo era 'settaria': lesse la parola cyberpunk nel testo, e titolò 'E ora sei studenti lanciano il punk multimediale'. Non c'entrava niente, ovviamente, ma non è la prima volta e non sarà l'ultima che essere nel futuro significa non farsi capire da chi crede di vivere nel presente, ed invece è già passato.
Dicevo del debito: ho imparato quelle pochissime parole di giapponese che conosco grazie all'ipertesto con collegamenti audio preparato da Massimo Borri. Ho provato senza risultato a diventare un buon giocatore di scacchi leggendo la rubrica di Federico, ho letto opere letterarie partorite da talenti strepitosi che meritavano una ribalta nazionale, e anche (ma succede così con tutti gli spazi che permettono a chi scrive di sfogare la propria passione) racconti di cani che non sapevano neanche scrivere in italiano. Magari qualcuno avrà pensato la stessa cosa leggendo i miei, di racconti e poesie giovanili, che Kult pubblicò garantendomi la copertura di uno pseudonimo incomprensibile ai più, Ignatz come il topo che tira i mattoni in testa a Krazy Kat, un vecchio fumetto americano. Non ho più scritto se non per lavoro, dopo aver affidato tutta la mia produzione pseudo-artistica a Kult. Non avevo più bisogno di farlo, ma questa è una storia privata e non ve la racconterò. Posso dirvi però che mi sono sempre ripromesso una cosa: il giorno che avessi scritto nuovamente un racconto o una poesia, l'avrei affidato alla stessa nave in bottiglia che solca i mari digitali da quando tutti eravamo più ingenui ed entusiasti, ma sicuramente non peggiori.

  


NdR: è stata davvero una cosa gradita che il primo degli articoli collegati ai Duecento numeri di KULT Underground sia stato firmato da Doriano Rabotti. Dei tantissimi ricordi di quel 1994 quello relativo a quel primo incontro è sicuramente uno dei più vividi, e da quella "chiacchierata" non solo è scaturita una prima importante visibilità per la rivista, ma anche un rapporto di stima reciproca che, nonostante i tanti anni passati, dura tutt'ora.

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