Il 30 settembre sono scaduti i termini del concorso indetto da KULT Underground/KULT Virtual Press per racconti e immagini derivati da uno dei racconti di “Bestiario Stravagante”. Ci tengo molto a ringraziare la redazione che mi ha offerto questo spazio e in particolare Marco Giorgini che ha lavorato attivamente alla realizzazione di detto concorso.
Ahimè, devo dire che la partecipazione è stata davvero esigua. D’altronde la concorrenza, a livello di concorsi letterari su internet è molto agguerrita e comprendo che l’offerta di una copia del mio libro (a fronte di chi offre in premio, magari, la pubblicazione di una selezione dei racconti pervenuti in un’antologia cartacea…) sia risultata scarsamente appetibile.
Che dire… peccato!
Ma veniamo ai risultati.
Di “opere visive” non ne è arrivata, ahimè, nemmeno una per cui il premio di quella sezione rimane inassegnato.
Per quanto riguarda invece la sezione “racconti” sono molto felice di assegnare la vittoria ad Antonio Liccardo con il racconto “Capatosta – parti extra/director’s cut de La Cantina’ “).
A seguire il testo: buona lettura!
Capatosta
(parti extra/director’s cut de La Cantina)
Il tipo lasciò il bar ricambiando il saluto con la stessa gentilezza del gestore del locale che gli mostrò un sorriso compiaciuto e lo osservava insistentemente, quasi con goduria.
Il gerente sorrideva ancora quando, una volta solo, prese la cornetta del telefono e compose un numero.
– Non ci crederai, ma ne ho trovato uno ed è quello che fa per te.
– Fa per me – ripeté colui all’altro capo del filo – e per te?
– Dài, che prenderai due piccioni con una fava.
– Addirittura?
– Certo, certo: così tu ti divertirai come desideri, e i piccoli staranno a posto per un altro mesetto almeno.
– Caro mi costa questa doppia soddisfazione, o sbaglio?
– Sbagli. Ti costa poco, anzi non ti costa nulla.
– Fammi indovinare: è per la tua collezione.
Il barista, con voce estasiata, disse: – Sì! E’ perfetto per quest’anno, vedessi che…
– Okay, okay, non mi raccontare i particolari. La mania è la tua.
– Ehi, porta rispetto al sindaco della tua città! Il mio è uno studio scientifico personale e…
L’altro tagliò corto: – Va bene, dimmi cosa devo fare.
– Dagli le chiavi, quest’è.
Incredulo, quello all’altro telefono stette in silenzio per un po’ e poi domandò: – Le chiavi… della casa?
– No, del trerruote. Certo, della casa, di quella casa.
– E come hai fatto?
– È uno di città. Gli ho detto del silenzio che per lui può essere un problema, ma è stato ancora più contento. Vuole fare lo scrittore.
– Uno di città, eh: tenero tenero…
– e capatosta!
E risero di gusto.
– Mi ha detto che da piccolo stava sempre qui coi genitori, ma chi se li ricorda.
– Devo chiedere ai piccoli se si ricordano loro.
E di nuovo risate.
Poi il sindaco/barista salutò l’altro e riattaccò. Si fregò le mani e pensò che doveva essere un ottimo pezzo da anno 2010.
—
Il tipo salutò da lontano il proprietario della casa che, sulla porta, picchiettava irrequieto le dita su un bicchiere di whisky.
Quando quello fu abbastanza lontano, il padrone acciuffò le chiavi dell’auto dal mobiletto all’entrata e si avviò fuori di casa. Si mise nel veicolo, e partì.
Pochi chilometri dopo arrivò a un’abitazione grande, silenziosa, ben tenuta. Vuota. Ne aprì il cancello del cortile e una volta dentro fece uscire da una casetta da giardino due sdraio che spiegò e un pallone da volley che lanciò sotto al canestro.
Entrò in casa, dal salone passò in cucina dove prese una porta e scese in cantina.
Accese la luce e una montagna di carne ricca di cicatrici si avventò contro di lui. Gli lanciò contro una proboscide lucida lunga un braccio e due cicatrici si strapparono e rivelarono occhi grossi quanto un limone, famelici.
Il padrone di casa si afferrò la catenina che aveva sotto la maglia e la espose. Una pietruzza di colore verde screziata di raggi e stelle dorati. Brillò.
Il pallido essere ritrasse la proboscide orripilato e dalla trombetta che aveva sulla nuca partì un fischio liquido. Rimase fisso e tremava così tanto che sembrava ribollisse.
Da un angolo della cantina, dietro uno spesso armadio, fecero capolino altre tre creature identiche, prive però della proboscide ma con un appendice dentata a forma di spinotto elettrico.
– Calma: sono io – precisò il padrone, che allungò una mano, tenendo l’altra ben salda sulla pietra al collo. Accarezzò quella massa sformata che a poco a poco placò il suo tremolio. Le altre tre si avvicinarono a quella con la proboscide e furono carezzati anch’essi.
– Ho una sorpresa per tutti voi, ma ho bisogno della vostra partecipazione – disse, e da una tasca del pantalone prelevò quattro pietre di colori diversi ma brillanti come quella che portava al collo.
Ne poggiò ognuna sulla punta delle sacche di carne, le quali allargarono la cicatrice più lunga e ingollarono i minerali.
Cominciarono a gorgogliare, sbuffare, sciogliersi per poi ricomporsi, prendere qualsiasi dimensione e poi soffermarsi in forme stabili. Il proprietario intanto si avvicinò all’armadio e lo aprì.
Uno di quei cosi divenne ciò che somigliava a un maschio umano grosso di costituzione, gli altri ammassi divennero una figura femminile matura e uno che sembrava un bimbo piccolo. L’entità con la proboscide stava divenendo la stessa figura femminile ma in scala ridotta.
Più passavano i minuti più si definivano. Erano nudi.
– Vestitevi con questi – il padrone lanciò loro degli abiti prelevati dall’armadio.
Disse al maschio che stava crescendo ad altezza uomo: – Quando andate via, portagli via ciò che può fare rumore qui vicino. L’ultima volta non si è sentito nulla.
In risposta ricevette un impercettibile cenno della testa che andava pian piano allontanandosi dal corpo grazie a un collo dapprima piatto, poi taurino, infine più lungo.
Indicando la porta della cantina – Ti sta aspettando il sole che ti piace tanto – fece alla femmina più grandicella, dal capo della quale stavano zampillando sottili fili lunghi che assumevano sempre più il colore del grano.
– A te, indovina: è in giardino, è rotonda, fatta di pelle lavorata ma non è una testa umana mozzata. Cos’è? – e il più piccolo umanoide capì, abbozzando ciò che sembrava un sorriso a lato di una cicatrice che si stava gonfiando a mo di labbra.
Alla donna giovane in via di composizione declamò – Tu sarai la star di questo film – e le diede un pizzicotto su quella che stava per delimitarsi come guancia – e io mi occuperò della location.
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Il tipo per poco non incontrava il proprietario della casa: il primo andava via, il secondo arrivava in auto, rimorchiando una betoniera.
Quello che emulava le fattezze di padre era in attesa al cancello, la madre si godeva il sole su una delle sdraio, il più piccolo calciava ripetutamente la palla di pallavolo contro il muro e la giovane saltò dalla sua sdraio per avvicinarsi al padrone, visibilmente impaziente.
– Non stai nella pelle, eh? A proposito, visto che siamo pronti – lui agitò una cazzuola che aveva in mano – mi dovresti qualcosa.
Lei chiuse gli occhi, inspirò profondamente e sputò a terra un grumo di colore bianco. Il padrone lo raccolse dall’erba del cortile, lo pulì e ne rivelò il sassolino colorato che le aveva fatto inglobare giorni prima.
La ragazza iniziò a perdere consistenza.
– Su, su: non c’è tempo da perdere – e la trascinò con se in casa.
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Il tipo venne spinto nell’enorme bocca dell’essere con la proboscide, con gli innumerevoli tentacoli che ne fuoriuscivano.
Il proprietario della casa guardava incantato la scena, giocherellando con tre pietre colorate in una mano e quella pendente al collo con l’altra.
– È tenero come piace a te, direttamente dalla città.
Dalle scale di legno discesero veloci gli altri tre componenti della famiglia che erano a uno stadio di decomposizione avanzato, e attendevano impazienti intorno alla massa dalla quale si udiva uno scrocchiare di ossa.
Il padrone pochi minuti dopo ordinò: – Okay, ora mi lasci il pezzo. Succhialo e sputamelo.
Il sacculo gigante si fermò per un attimo, ruotò alcune delle sue lingue appiccicose, risucchiò potente e sputò a terra il teschio impeccabilmente ripulito del tipo che si era recato in quell’abitazione perché voleva diventare uno scrittore.
Il padrone lo raccolse, lo fissò.
Le altre tre creature ritornarono allo stato di cumuli di carne. Affondarono la propria spina di denti nel mucchio carnoso che si stava nutrendo, e cominciarono e succhiare.
– Bravi i miei piccoli, bravi – si compiacque e se ne andò, passando accanto a una telecamera con una luce rossa accesa.
A notte fonda il proprietario della casa bussò a una porta con la pomposa targhetta “sindaco”.
Fu nella villa e poggiò un sacchetto sul tavolo che il sindaco impaziente lo portò via, dirigendosi in una stanza che recava fuori una scritta: “evoluzione”.
Domandò senza vero interesse – Com’era l’inquilino?
– Tenero tenero.
Il sindaco raccolse il teschio e gli batté rumorosamente le nocche sul cranio.
– E capatosta!
Si sganasciarono dalle risate; il sindaco poggiò il reperto osseo su un mastodontico scaffale ligneo, accanto a centinaia e centinaia e centinaia di teschi.