A differenza di Matteo Garrone, che per Gomorra ha scelto una messinscena realista (e allo stesso tempo sporca, livida, disturbante) Paolo Sorrentino, ne Il Divo, sceglie una messinscena grottesca, che si faccia carico di rappresentare il Potere. Giulio Andreotti, uno che il Potere l’ha conosciuto per decenni, diventa nella mani di Sorrentino un corpo e soprattutto un volto funzionale a questa rappresentazione. Giulio Andreotti è dunque una maschera. Non è un caso che la prima inquadratura in cui lo vediamo ce lo mostri come una sorta di Hellraiser, con degli aghi in faccia (un nuovo tentativo per combattere le sue emicranie), una maschera quasi rituale (e profondamente cinematografica nei suoi echi) che anticipa quella (molto più inquietante) che verrà dopo, ovvero il volto immobile e controllassimo di Andreotti (grazie anche alla preziosa e trattenuta interpretazione di Beppe Servillo). Perché la figura di questo uomo, forse più di ogni altra nella politica italiana, è immediatamente riconoscibile. Gli occhiali, le orecchie, la gobba, la postura sono diventati, nel corso degli anni, simboli rappresentativi di un determinato tipo di potere, quello della Democrazia Cristiana, tramandato e mantenuto per quasi mezzo secolo.
Ed è quindi il grottesco la chiave di lettura dell’intero film. Le forti connotazioni fisiche di tutti i personaggi che compongono la corte dei miracoli di Giulio Andreotti trasformano i reali uomini a cui si riferiscono in ennesime maschere tragicomiche, che mettono in scena il servilismo e il degrado di una classe politica che in pochi anni avrebbe conosciuto il suo rapido declino.
Perché la storia narrata comincia con l’inizio degli anni novanta, con il settimo governo Andreotti e finisce con i processi che il Divo Giulio ha dovuto subire per i suoi presunti collegamenti con la Mafia. Nel mezzo tanti pezzi della storia italiana (le stragi, gli omicidi irrisolti, Moro, le Brigate Rosse), tasselli impazziti che cercano una ricomposizione tanto filmica quanto storica. Ma a Sorrentino non interessa l’indagine politica o sociale, non interessa mettere sotto accusa Andreotti anche se prova a tracciare traiettorie interpretative che ricolleghino i fatti della sua vita (e del nostro Paese) in maniera causale (una bella sequenza mostra Andreotti e Scalfari parlare del caso e della volontà di dio) distribuendo colpe e responsabilità; Sorrentino è invece impegnato nell’esecuzione di un ritratto quanto più filmico possibile di questo ambiguo individuo. Il regista sfrutta la figura di Andreotti per mettere in scena oltre ad una rappresentazione del potere e dei suoi luoghi di applicazione (i palazzi, i corridoi, i saloni) la sua personale visione di questo uomo, le curiosità che suscita, il timore nei suoi confronti, la magia esercitata dalla sua figura.
E anche la vita di Andreotti e il suo lavoro vengono messi in scena in maniera molto controllata, quasi ritualistica. I gesti della mani come segni che servono per decodificare, agli altri, i suoi stati d’animo, le passeggiate mattutine per andare in chiesa, le compresse di aspirina contro il mal di testa (in sequenze che ricordano il Travis Bickle di Taxi Driver mentre guarda il suo bicchiere pieno di bollicine che salgono). Gesti e comportamenti che si inseriscono alla perfezione in un mondo fatto di traffichini e ruffiani, che scelgono alleanze e richiedono voti, un mondo, quello della politica italiana, chiuso e settario, nel quale sono i misteri a costruire poi la Storia, mentre la verità latita pericolosamente, sempre nascosta, sempre tenuta da parte.
Sorrentino continua ad esprimersi attraverso una scrittura filmica di alta scuola e con una finezza tecnica impressionante. Le inquadrature sono sempre ricercate, il montaggio serve a mantenere costante e potente il ritmo della narrazione, con improvvise accelerazioni descrittive (gli omicidi all’inizio del film con una canzone dei Cassius nella colonna sonora, la presentazione degli “uomini” di Andreotti) e la musica amplifica le percezioni dello spettatore, trasportandolo molte volte su un piano di estati visiva, scollegandolo dalla partecipazione intellettuale e critica per farlo sprofondare nell’architettura di una scena, di un piano sequenza o nell’estrema originalità di alcune inquadrature. Sorrentino, è ormai indubbio, possiede un suo stile, ampiamente riconoscibile. Ed è una sua scelta quella di guidare lo sguardo dello spettatore. In quello che non è mai un narcisistico esercizio di stile quanto un personale percorso estetico e cinematografico nell’ingannevole magia della visione.
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