Bruges. Anzi, quella Bruges del cazzo. Dove si ritrovano in una stanza d’albergo due killer ad attendere una telefonata del loro capo. Cortocircuiti narrativi e culturali. Nei quali si incontrano tematiche alte (morale, perdono, senso di colpa) e linguaggio basso, la pittura fiamminga e Bosch con puttane che vengono da Amsterdam e nani strafatti di ketamina. In questo gioco di scrittura postmoderna, che ha il suo maestro dichiarato e insuperabile in Quentin Tarantino, si possono riscontrare oltre agli elementi propri dell’autore statunitense (dialoghi fulminanti, citazioni cinematografiche, dissertazioni filosofiche attraverso l’uso del linguaggio comune) anche elementi più originali, come l’inconsueta ambientazione della pellicola. E allora Bruges si trasforma, la magia fiabesca delle sue case e strade medievali la fanno diventare una sorta di luogo sospeso e metafisico (come il finale suggerisce), dove i due killer interpretati da Colin Farrel e Brendan Gleeson si muovono in direzioni opposte, il primo con insofferenza e noia, pronto a scolarsi qualche pinta di birra piuttosto che a soffermarsi sulle bellezze architettoniche e storiche della città. Il secondo con occhi meravigliati, contento di cogliere l’occasione dettata dall’attesa della telefonata del suo capo per scoprire il fascino della città, i suoi angoli fiabeschi, la sua atmosfera misteriosa.
Vive di questi cortocircuiti l’intera pellicola, di uno scontro tra un’America in versione turista (i ciccioni che vogliono salire sulla torre, il canadese, il nano, lo stesso Farrell che anche se è irlandese ha quel menefreghismo culturale di un americano) e un’Europa che si mostra attraverso i suoi monumenti (chiese, torri, canali, strade) e le sua storia. E’ come se le forme narrative del cinema americano di matrice tarantiniana si appropriassero di spazi urbani inconsueti per rielaborarli in una visione non solo funzionale al racconto ma anche capace di far emergere per contrasto (Farrel odia la città) nuove possibili situazioni.
Bruges diventa quindi il punto di contatto tra un set europeo e un modo di scrivere film anglo-americano (accanto a Tarantino si potrebbe anche aggiungere Guy Ritchie), dove la narrazione si colora di sfumature esistenzialiste e improvvise svolte surreali, con un uso della violenza e dell’ironia, in chiave pulp, che serve ad aumentare il dinamismo del racconto. Questa contaminazione è un esperimento interessante e riuscito, che se sviluppato e ampliato potrebbe aprire nuovi orizzonti per chi, partendo da Tarantino, non ha ancora ben deciso dove vuole arrivare.
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