Bill Murray è seduto in un taxi. Il taxi va a tutta birra attraverso le strade affollate di una città indiana. Chiasso, colori, umanità varia. Bill scende dal taxi, entra in stazione e si mette a correre. Il suo treno sta partendo. Immagini al rallentatore. Movimento di macchina orizzontale, da destra verso sinistra, parallelo a quello del treno che parte. Bill Murray continua a correre. Entra nell’inquadratura un nuovo personaggio, con i tratti inconfondibili di Adrien Brody. Il personaggio supera Bill Murray e salta sul treno, che poi si allontana. Bill Murray si ferma, non ce l’ha fatta. Il treno è il Darjeeling Limited (titolo originale del film), il personaggio è Peter, uno dei tre fratelli Whitman.
In uno scompartimento del treno Peter incontra proprio i suoi fratelli, Jack (Jason Schwartzman) e Francis (Owen Wilson). Il loro viaggio ha inizio. Alla ricerca di una nuova spiritualità da spartire e condividere. Wes Anderson (che scrive con Roman Coppola e Jason Schwartzman) sa raccontare con leggerezza e usa toni grotteschi ed eccentrici per delineare i suoi personaggi. Anderson è un regista capace di esprimersi attraverso una personale visione delle cose e soprattutto in grado di ricreare sullo schermo una spazialità incredibilmente cinematografica. Gli interni del treno, gli scompartimenti, nella loro densa composizione (oggetti, valigie, colori, personaggi che si muovono) si trasformano in tanti piccoli quadri in cui i corpi degli attori si spostano e interagiscono. L’uso del primo piano porta poi l’attenzione sui volti (malinconici) dei tre protagonisti. Che in un gioco di complicità e individualismo costruiscono le dinamiche emotive che scorrono fra di loro.
Anderson sorprende lo spettatore con improvvisi cambi di registro (un dramma inaspettato) e salti temporali che rimandano la storia nel passato (un flashback del viaggio in limousine dei fratelli Whitman per andare al funerale del padre). Si appropria del linguaggio del cinema per elaborarlo in una poetica personale, visiva quanto narrativa, sollevando molte volte il montaggio dalla sua funzione di collante e affidandosi a veloci panoramiche a schiaffo che dettano il ritmo delle sequenza e arricchiscono l’originalità di questo modo di filmare. Anderson reclama a piena voce la sua funzione di narratore, scegliendo le storie che verranno sviluppate, lasciando che alcune tracce rimangano tali, spunti e possibili riflessioni che non si trasformeranno mai in un racconto.
L’India mostrata è coloratissima, uscita fuori dalla magica estetica degli anni sessanta, sfondo perfetto per le vicende e gli incontri, a volte surreali, dei tre fratelli, che tra una sigaretta e un bicchiere di liquore, nei loro vestiti occidentali (con l’aggiunta di elementi indiani, una collanina, un paio di scarpe) consumano una gran quantità di sciroppi a base di codeina e oppio. La ricerca spirituale e poi quella della madre (fuggita in un monastero) si trasformerà ben presto in un’esperienza di rappacificazione dei tre, di condivisone di spazi e tempi nuovi ed esotici, in cui ognuno potrà far emergere i propri limiti e difetti nel tentativo di superarli e di accettare finalmente quelli degli altri.
Anticipato dal bel cortometraggio Hotel Chevalier, che ha come protagonista Jack e la sua ragazza americana (la sempre meravigliosa Natalie Portman), Il treno per il Darjeeling è un viaggio nei colori e nelle musiche, nel cinema e nelle forme del racconto, dove l’importante è continuare ad andare, anche perdendosi, che poi è (forse) l’unico modo per ritrovare se stessi.
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