Tre nomi: Leyla, Carina, Aram. Tre storie dietro questi nomi. Tre vicende in cui violenza e onore si intrecciano per portare alla luce gli istinti più bassi dell’essere umano. La sua animalità, il suo bisogno della violenza come forma di controllo e sopraffazione.
Le storie di Leyla (e della sorella Nina) e Carina sono speculari. Donne picchiate e umiliate in nome di una superiorità maschile che si esplicita nelle dinamiche familiari, dove il padre-marito è colui che decide le regole da seguire. Due famiglie, una arabo-cristiana (anche se non è mai detta la vera nazionalità di questo nucleo) e l’altra svedese. Due mondi apparentemente contrapposti, lontani, distanti che trovano un punto d’unione proprio nelle forme di violenza perpetuate nei confronti delle donne. Nella prima una tradizione da rispettare che vuole le donne vergini fino al matrimonio e nell’altra il successo di una donna nei confronti del marito che diventa il detonatore di esplosioni di invidia e dolore. La terza storia è quella di Aram, un uomo che gestisce un locale e che si trova coinvolto in una situazione ambigua e misteriosa, che solo al termine del film si collegherà con le vicende di Leyla e Carina.
Ed è proprio la storia di Aram a tracciare una linea di confine tra il crudo documentarismo che poteva nascere dal bisogno di raccontare fatti violenti e le esigenze dello spettacolo e della narrazione cinematografica. In questa ultima storia si riscontrano quegli elementi thriller che tanto interessano al regista (amante proprio di questo genere e di uno dei suoi maestri, Alfred Hitchcock) e che trasformano questo film oltre che in una dura riflessione sul tema della violenza anche in una pellicola di genere, in cui la tensione del racconto non viene mai meno e dove la tecnica (molto utilizzata la steadycam) e la messinscena sono accurate e studiate.
Il titolo internazionale del film, traduzione letteraria di quello svedese, è When Darkness Falls e rimanda ad una leggenda che vede nell’arrivo della notte anche la venuta degli esseri malvagi. Per questo si accendono nelle case candele che li scaccino. E negli interni, nelle stanze in cui si svolge gran parte del film sono proprio queste candele ad illuminare la violenza degli uomini, senza riuscire però a fermarla. E la speranza, che divampa nel finale, è forse la luce più neccessaria di tutte, perché alimentata dal bisogno di una giustzia, giammai divina, ma solo e sempre profondamente umana.