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Cloverfield

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Alcuni ragazzi, durante una festa per salutare la partenza di uno di loro, si ritrovano immersi in un incubo notturno e apocalittico. Qualcosa di non meglio identificato inizia a seminare il panico a Manhattan, i ragazzi scendono per strada, la testa della statua della libertà arriva rotolando come un’immensa palla da bowling. I problemi sono molto più seri di quanto si credesse. Uno dei ragazzi ha una videocamera con la quale stava registrando messaggi di saluto alla festa. Tutto il materiale che riprenderà sarà il film a cui assisteremo.
 
Cloverfield sembra portare avanti la seguente tesi: quanto più un’immagine si avvicina ad un formato amatoriale tanto più essa è reale.
Questo significa che nella nostra società multimediale il grado di realismo di un’immagine non si misura più in base a ciò che l’immagine mostra quanto dal suo formato e dalla sua qualità. Più l’immagine è traballante, fuori fuoco, incontrollata, registrata su un supporto digitale (mini-dv, cellulare) o da una videocamera di servizio (televisione, sorveglianza), più il suo grado di realismo sembra essere certificato, garantito. Un po’ il concetto sui cui si basa tutto il funzionamento della Real-Tv.
Lo sviluppo di questa tesi, però, più che dare coerenza e stabilità al film crea alcuni paradossi.
Il primo è quello che riguarda il rapporto tra il realismo delle immagini e quello del plot. La storia, diciamolo subito, è inverosimile quasi in ogni scelta dei protagonisti. Il racconto viene frammentato in una serie di azioni illogiche e puramente funzionali alla spettacolarità del tessuto visivo. In questo modo si impedisce allo spettatore una precisa immedesimazione con i personaggi. Per quanto la tecnica della soggettiva sia la migliore arma a disposizione per creare una visione immersiva, allo stesso tempo, la stupidità dei protagonisti (e della sceneggiatura) costringe ad allontanarsi dalla loro esperienza, ritornando ad essere semplici spettatori.
 
L’immaginario apocalittico creato da Cloverfield vorrebbe svilupparsi su due livelli. Uno di riscrittura filmica del genere catastrofico e dei monster-movie, con un punto di vista da dentro, “realista”. L’altro livello è quello che riguarda la possibilità di entrare in questo immaginario per fare un’esperienza in prima persona. I disturbi nell’immedesimazione trasformano però l’esperienza solamente in una serie di scosse sensoriali (visive ed uditive). La soggettiva ha dunque la funzione di far partecipare lo spettatore al “gioco” dei personaggi, senza però riuscire ad intrappolarlo dentro di esso, con il risultato che mancando l’interattività il meccanismo si rompe e la semplice visione finisce per annoiare.
Un altro paradosso è che il grado di realismo raggiunto dalle immagini grazie al loro formato è in realtà il frutto di una finzione totalmente programmata. Le immagini per quanto vogliano sembrare amatoriali sono troppo nitide per essere tali. Sono dunque immagini cinematografiche  travestite da immagini amatoriali.
 
Cloverfield, in questa ottica, è la morte del cinema inteso come riproduzione e riorganizzazione della realtà. In Cloverfield tutti gli elementi più strettamente filmici come l’inquadratura o la messa a fuoco (per fare degli esempi) vengono meno. Cloverfield è la morte del cinema perché non  c’è più nessun occhio che guardi la realtà per riorganizzarla in un film. L’occhio della videocamera, in Cloverfield, è un elemento impazzito, schizofrenico, che riprende tutto ciò che entra nel suo campo visivo senza più nessun criterio di selezione. Il filmabile diventa quindi qualsiasi cosa. Non è più tanto l’occhio del personaggio che regge la videocamera a filmare, quanto il suo corpo, la sua mano. La videocamera dunque come protesi capace di documentare, di testimoniare l’azione fisica. In questo processo c’è anche un altro paradosso della nostra società nella quale il documento, la testimonianza non è più orale ma solo e sempre visivo. E’ ormai l’immagine a raccontare, non più la parola. Infatti tutti i discorsi del film sono elementi superflui che non servono mai allo spettatore per avere una maggiore chiarezza su quanto sta vedendo.
La videocamera assume poi anche un valore metafisico. Essa è infatti indistruttibile, inesauribile, immortale. Solo quello che essa filma assume valore, il resto non ha più importanza.
 
Cloverfield è un prodotto che gioca abilmente (e senza scrupoli) con le paure del post-11 settembre. Nelle sequenze in cui il Mostro arriva a New York le immagini sono tali e quali a quelle viste in televisione durante l’attacco alle torri gemelle. Riprese dalla strada, il crollo di un palazzo, la polvere che riempie e copre ogni cosa. Il film, purtroppo, non cerca di ampliare nessuna delle varie possibilità teoriche, morali, estetiche che ha al suo interno. Ogni elemento sembra essere utilizzato solamente per le finalità commerciali del prodotto.
Cloverfield, più che da un punto di vista cinematografico, andrebbe analizzato da un punto di vista economico e sociologico. Come operazione di marketing è infatti di altissimo livello, poiché capace di ingabbiare attraverso dinamiche pubblicitarie e voyeuristiche la curiosità di un enorme pubblico nei propri meccanismi di consumo.
Trailer su YouTube

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