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Parlami d’amore

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Nei panni di Sasha, un ragazzo cresciuto in una comunità di recupero per tossicodipendenti, Silvio Muccino arriva a Roma, dove trova lavoro come addetto alla ristrutturazione dei pavimenti di una grande villa. Il giovane Muccino indossa quindi la sua tuta da operaio e si guadagna il pane con il suo onesto lavoro. L’incontro fortuito con Nicole, dopo un incidente stradale, è l’inizio della sua educazione amorosa e sentimentale ad opera di questa donna, più grande di lui. Tra i due si instaura un gioco di complicità che dovrebbe insegnare al giovane Muccino come conquistare una donna e come sedurla. Egli è infatti innamorato di Benedetta, figlia del padrone della villa in cui lavora e che non vede da quando era bambino. La continua altalena dei sentimenti porterà il giovane Muccino prima tra le braccia di una e poi tra le gambe dell’altra, in sequenze dove l’erotismo trova la sua massima rappresentazione in un capezzolo succhiato con neanche troppa convinzione.
Visto che la storia langue, arriva a ciel sereno un’improvvisa rivelazione: Il giovane Muccino è un asso del poker. Attraverso le partite al tavolo verde il giovane Muccino scoprirà il lato oscuro della vita e si trasformerà da piccolo proletario in un piccolo yuppie, attratto da soldi, fica e alcol. Alla fine l’amore trionferà su tutto.
 
Le scelte registiche del giovane Muccino sono molto chiare. Uso perpetuo del primo piano in una continua glorificazione del proprio volto, uso di una luce soffice e delicata per dare maggiore luminosità ai propri capelli, uso del piano americano per mostrare un fisico che conosce abbastanza bene la palestra. Come attore il giovane Muccino sembra perennemente in stato di ebetismo, con un sorriso stampato sulla bocca che esce fuori in ogni occasione. Che sia gioia o dolore, felicità o tristezza, il giovane Muccino sorride sempre e comunque forse consapevole della tremenda fortuna da cui è stato baciato. Perché è questo il punto su cui riflettere e cioè che Silvio Muccino è uno tra i pochissimi privilegiati che in Italia alla bella età di ventisei anni può realizzare un lungometraggio, addirittura scrivendolo, dirigendolo e interpretandolo, mentre la maggior parte dei suoi coetanei è in continuo stato di sbattimento per un qualsiasi posto di lavoro. Questo è sbagliato. Questo fa davvero venire voglia di incazzarsi.
Muccino poi riesce là dove neanche Lars Von Trier o Michael Haneke erano arrivati. Spingere lo spettatore, almeno ogni cinque minuti, ad abbassare lo sguardo o a girovagare con gli occhi in sala aspettando che la scena passi. Si sente quasi il bisogno fisico di non guardare, di allontanarsi per un attimo dai grandi occhioni blu del giovane Silvio o dalle sue battute o dalla sua faccia che riempie per tre quarti del film ogni singola inquadratura.
La scrittura è poi vera miseria narrativa. I dialoghi fanno ridere quando non dovrebbero, il mondo della droga e della tossicodipendenza è mostrato come te lo aspetteresti in una pubblicità progresso, il ritmo della storia  ha la potenza di un ansiolitico.
E infine il giovane Muccino beve in continuazione Beck’s e Coca Cola Light, veste Franklin e Marshall e lucida i suoi bei pavimenti di legno con Pronto, a testimonianza di come, per i giovani autori italiani, il product placement sia ormai diventato elemento drammaturgico a tutti gli effetti.

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