Che cosa mi abbia indotto a leggere questo romanzo scritto da una prolifica autrice, vissuta nella seconda metà dell’ottocento e nei primi cinque lustri del millenovecento, mi è del tutto sconosciuto.
Non potrei nemmeno definirla curiosità, perché già in età giovanile avevo letto qualche cosa scritto da lei, non ritraendone tuttavia particolare piacere.
Eppure, la tentazione di mettere gli occhi in qualche cosa un po’ al di fuori della norma è stata forte, così che sono stato indotto ad acquistare il volume.
Premetto che ci troviamo nell’ambito del cosiddetto romanzo d’appendice o anche con il termine più spregiativo di feuilleton, cioè una scrittura semplice, facilmente comprensibile soprattutto da parte della gente meno istruita, con trame molto arzigogolate, dove fioriscono tradimenti, dove il buono di turno è continuamente vilipeso, anche se il finale gli riserva sempre un riscatto.
Se volessimo fare un paragone a un genere attuale, che trova la sua forma espressiva però nel mezzo televisivo, è come la fiction, ma con una differenza essenziale: il feuilleton ha sempre intenti educativi, mentre l’altra è spesso totalmente priva di morale.
Per dirla in breve, culturalmente è meglio il romanzo d’appendice, cosa tanto più preoccupante se si considera che gli amanti della fiction hanno un grado d’istruzione ben superiore a quelli dell’epoca d’oro del feuilleton.
In questo volume di Carolina Invernizio è presente una struttura da giallo che, tuttavia, non è la finalità per cui è stato scritto, ma è solo il supporto per imbastire intorno una storia a tinte fosche di dolci dame tradite, di operaie belle come il sole, di giovani sinceri ed onesti, di un conte che è la malvagità in persona, tutte caratteristiche proprie del genere.
Lì uno se è buono lo è fino a diventare stupido e un altro se è cattivo è peggio del diavolo.
Sono personaggi al di fuori della realtà, dove invece è sempre presente in ognuno l’aspetto positivo accompagnato tuttavia, in grado più o meno accentuato, da quello negativo.
In verità questi stereotipi semplificano molto la comprensione del testo da parte di lettori spesso occasionali, di modestissima istruzione e di ceto sociale remissivo.
Un altro aspetto, poi, da tenere in considerazione è lo stile, dove l’eloquenza predomina non solo per bocca di nobili o dottori, ma anche di servette e di modesti operai.
In effetti, non sono a parlare i personaggi, ma l’autrice stessa, di cui si avverte continuamente la presenza con giudizi e consigli esposti per il tramite dei soggetti da lei creati.
Tuttavia, l’aspetto più significativo è che l’interesse alla lettura rimane inalterato, pagina dopo pagina, perché la Invernizio è capace di creare continue aspettative che inducono il lettore odierno, più smaliziato, a soprassedere a certe manchevolezze, quali l’impressione che i protagonisti stiano recitando, insomma che siano loro stessi attori di una trama preconfezionata.
E così, nonostante la lunghezza e una sempre presente verbosità, si giunge al termine, forse non appagati culturalmente, ma comunque consapevoli di aver trascorso qualche ora in modo gradevole senza aver affaticato la mente.
E’ una sorta di archeologia della letteratura, una scoperta, in fin dei conti, di una narrativa minore che, tuttavia, non mi sembra inferiore a certi romanzi che oggi hanno successo, pur non avendo nemmeno il merito di interessare il lettore.
Carolina Invernizio (Voghera 1851 – Cuneo, 27 novembre 1916).
Scrisse per anni romanzi di appendice per La Gazzetta di Torino e poi per l’Editore Salani, che le pubblicò la bellezza di 123 libri.