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MEDEA-DEA III episodio – regia di A. Latella

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L’ultimo capitolo di questa trilogia si apre su uno spazio completamente ingombro di maschere, le maschere dei figli che Medea ha sacrificato all’amore. Quest’ultima parte è una girandola di immagini: burattini, volti senza corpo, un vestito da sposa, un bozzolo sollevato da terra che si apre e scopre una Medea assunta in cielo, li dove solo può trovare pace e ricongiungersi con i figli. Tutto è bianco, e senza retorica rimanda a sensazioni di pace come quelle che dobbiamo aver provato nella culla da neonati. Medea non più a terra può tornare ad accarezzare e cullare i figli ora che la sospensione crea la distanza necessaria alla tragedia. Se non fosse per quei volti di lattice abbandonati al suolo più nessuno ricorderebbe che fino a pochi attimi prima quella donna, così bella lassù ha commesso ciò che non si può comprendere. Ma anche questo alla fine ci viene tolto da un Giasone-clown che fa pulizia, con sistematico ordine, dello spazio.

Poesia e ironia, profonda dolcezza e cinico sarcasmo si confondono e si mescolano riportandoci senza tregua dall’ieri all’oggi, dai greci a noi. In quel bozzolo sospeso per aria Medea ricorda il deus-ex-machina caro alle tragedie greche che Euripide aveva però relegato in secondo piano se non cancellato completamente.

Sembra, a vedere Medea-Dea, che nessun’altra conclusione possibile potesse essere messa in scena alla fine di questo lungo viaggio alle radici del mito. Gli attori abbandonano quello che fino a quel momento era stata la loro peculiarità e si trasformano, necessariamente diversi dopo ciò che si è compiuto: Medea abbandona la terra, il corpo agile e nervoso, le urla e lo strazio per ritrovarsi morbidamente adagiata e cullata dalla sua stessa voce-nenia. I figli diventano semplicemente corpi che danno vita a due burattini, questi ora i veri figli di Medea che si ritroveranno tra le sue braccia.

Anche qui nessun giudizio, nessun commento semplicemente un provare a raccontare, a sentire con qualcosa che non sia la parola: immagini, corpi, colori.

E’ un teatro carnale, sanguigno erotico quello che mette in scena Latella è lo è anche quando non lo vuole essere come in quest’ultima parte della trilogia, lo è nonostante tutto diventi aereo e intangibile addirittura meccanico con la scelta di far muovere due burattini su un palco che fino a quel momento ha visto muoversi in ogni direzione carne e corpi che per lo sforzo gocciolavano senza tregua sudore.

A vederla tutta insieme la trilogia si esce spossati ma con un incomparabile miscuglio di sensazioni. Dal riso al pianto, dalla comprensione al rifiuto; nonostante la stanchezza, ne vale veramente la pena.

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