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Sunshine

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Il lavoro svolto da Danny Boyle sembra incentrarsi sul concetto di Visione. Un concetto che ha interessato molto del cinema di fantascienza moderno, soprattutto da 2001:Odissea nello spazio in poi. Il film di Kubrick trasformava un genere fino a quel momento consolidato in strutture sia immaginative che narrative in qualcosa di completamente diverso. Lo Spazio diventava mentale, filosofico, estetico, filmico. Kubrick rifletteva oltre che sulle origini e i limiti dell’uomo anche sulle possibilità della Visione stessa. Lo spazio cosmico limitato dai bordi di un’inquadratura diventava composizione artistica. Il lento movimento dei pianeti, quello delle astronavi, la musica classica. Poi tutto si trasformava nelle immagini lisergiche dell’ultimo viaggio di Bowman. In quel caso Kubrick trovava i limiti della Visione in un’esperienza di tipo lisergico che mostrava immagini puramente astratte o alterate (e tutto senza l’uso del digitale).

Danny Boyle si muove dichiaratamente nella stessa direzione. Ed allora ad interessarlo per tutta la prima parte del film sono la composizione cromatica dell’immagine, il lavoro svolto sulla luce e il colore, la creazione di una Visione che sappia catturare e rapire lo sguardo dello spettatore. Alcuni dialoghi potrebbero aprire riflessioni filosofiche interessanti e il film sembra essere sospeso tra le esigenze narrative (e quindi di azione e sviluppo della storia) e la pura e semplice espressione visiva che un film di questo tipo permette di sviluppare.

Molti dei personaggi hanno poi un comportamento estatico nei confronti della loro visione del sole o dello spazio o della loro stessa astronave. Lo sguardo, l’occhio (fate caso all’inizio del film, la prima immagine sembra essere quella del sole ma in realtà è un occhio che ci guarda) sono questi elementi del corpo umano (sia dello spettatore, che dei personaggi) verso i quali il film è rivolto, che il film cerca continuamente di gratificare. La ricerca quindi dell’esperienza cosmica prima di tutto come esperienza estetica, visiva, di contemplazione.

Nella seconda parte del film Danny Boyle purtroppo abbandona la Visione per spostarsi sull’Azione. E il film cambia registro, dando risalto alle solite componenti narrative e a un inutile e improbabile scontro con un nemico di dubbia entità. Il montaggio diventa così schizofrenico da infastidire, nella ricerca di un climax emotivo quanto visivo che sappia porre fine in maniera adeguata al film. E si ritorna così, per un attimo, alla centralità della Visione, ma senza quella purezza che aveva contraddistinto la prima parte della pellicola.

L’immaginario spaziale di Boyle (che paga apertamente i suoi debiti nei confronti di Kubrick ma anche dei primi due Alien) smette di essere emozionate o funzionale nel momento stesso in cui si deve rinchiudere nelle esigenze della narrazione. Una volta rinchiuso perde la sua centralità, il suo fascino, la sua potenza evocativa. E il film inizia ad annoiare perché anche noi non siamo più capaci di esplorare con lo sguardo o con la mente quello che stiamo vedendo. Un’esperienza mancata, quindi. Che cerca ancora di spingere il cinema a domandarsi sui propri limiti e le proprie possibilità, finendo però per non trovare o non darsi nessuna risposta.


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