Da vari anni assistiamo a una rinascita del filone “thriller”, e non solo, all’italiana: finalmente possiamo leggere gialli, polizieschi, noir, ambientati nelle nostre città e non a Chicago e a Detroit, oppure nella solita compassata Inghilterra. Storie immerse nella nostra cultura, dall’assolato sud di Camilleri alla Bologna multiforme di Lucarelli, senza dimenticare gli antesignani (grandissimi) Scerbanenco con la sua Milano in pieno boom economico, Fruttero e Lucentini con l’amatissima Torino, e ovviamente il siciliano Sciascia con l’assoluto “Giorno della civetta”.
Una carrellata veloce (e per forza di cose lacunosa) per inserire nuovi luoghi, nuovi spazi per efferati delitti e nervose indagini: la Firenze ricreata da Simone Togneri, al suo primo romanzo con questo intenso “Dio del Sagittario”, non è solo sfondo inerte, ma protagonista viva della vicenda, ricchissima di suggestioni visive e di complessi richiami alla storia dell’arte.
Non a caso l’autore è diplomato in pittura proprio all’Accademia di Belle Arti di Firenze: già la prima scena è un’immagine fortissima, con quella pioggia torrenziale a coprire lo choc dei testimoni, e poi la vittima trafitta da frecce e disposta come un novello San Sebastiano.
Si indovina lo schema atroce del “serial killer”, che colpisce e uccide riproducendo le torture dei più famosi martiri cristiani – già rese immortali sulla tela e nel marmo.
La fede che si specchia nell’arte, l’arte che ricrea la fede, la follia che trasfigura tutto.
Come un “clic” automatico, un riflesso condizionato, la nostra mente corre ai collaudati meccanismi dei thriller d’oltreoceano, dal cinematografico “Seven” in poi: l’influsso del genere si sente, nella costruzione della trama, dei dettagli, nei colpi di scena ad effetto che ci tengono incollati alle pagine, nella figura stessa del serial killer mosso da un’oscura schizofrenia a sfondo sacro.
Togneri coniuga però l’osservanza, inevitabile, agli schemi del thriller (un vago senso di “deja-vu” pervade la lettura di alcune pagine) con invenzioni e elementi originali e suggestivi: dal gusto raffinato per l’immagine agli intriganti flash-back, in un filo continuo che lega il presente minaccioso e livido, con la guerra in Afghanistan alle porte, al mondo idilliaco dell’infanzia, e poi all’Ottocento dell’impressionista Renoir, di cui vengono riportate lettere e citazioni, in un continuo, costante omaggio.
Omaggio che si estende al nome dell’ex-poliziotto, ora docente all’Accademia di Belle Arti (ancora!), che affianca il cupo, rude, sbrigativo commissario Franco Mezzanotte: il giovane Simon Renoir, omonimo del famoso pittore, come lui dotato di uno “sguardo particolare”, lo sguardo che riuscirà a cogliere la rete di segni celata nei delitti.
La sensibilità nasce dalla sofferenza, e immergersi nell’universo distorto del delitto riporterà Simon ai traumi del passato, che aveva cercato invano di rimuovere: il finale, a cui arriviamo con lettura ansiosa, non è per niente consolatorio, ma anzi amaro e carico di domande.
Il romanzo avrà un seguito? Speriamo di sì, perché i personaggi funzionano, schematismi a parte, anche i comprimari hanno una loro forza – l’odioso e stolido PM, il giornalista d’assalto senza scrupoli, il poliziotto playboy…-, e il passato di Simon Renoir è ancora tutto da svelare. Probabilmente anche lo stile di Togneri sarà in divenire, caricandosi di maggior forza e compattezza stilistica: i presupposti ci sono tutti, la scrittura è limpida, scorrevole, appassionata. “Dio del Sagittario” potrebbe anche essere un ottimo film, già pronto e vivido scena per scena.