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Estate di Yul – Emanuele Bevilacqua

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Siamo nel cuore degli anni Settanta, un’epoca indelebile che l’autore, già affermato manager nel campo editoriale, riesce ancora a trasmetterci attraverso la sua estate, o meglio quella di Yul, approdando alla narrativa con un fresco romanzo d’esordio. Un tema che non può non vedermi coinvolto, a partire da una parallela formazione ed alcune analogie strutturali che, parafrasando il mio testo, definirei da “biglietto di ritorno”. Premettendo che, nel campo editoriale, tanto la mia carriera quanto la mia esperienza è pressoché modesta, vorrei subito mettere in risalto che ho gradito questo libro. Ne ho gustato la storia, la vivida fotografia di una fantastica stagione che sfugge e rifugge un provincialismo italiano per sognare in technicolor, su grandi schermi, tra sconfinati spazi americani. L’Italia, tuttavia, non è mai persa d’occhio da Emanuele, riaffiora qua e là in un gelido e scarno scandire di eventi e di date. Ritorna improvvisa, erompente, assecondata dal peyote, pensando ad Henry Miller. Si dischiude in una somiglianza col nonno trasportandoci nella città lasciata. Torna “l’odore dei copertoni bruciati”, fumogeni, poliziotti che sparano e giovani manifestanti impauriti, “ventre a terra, come gli indiani nella prateria”. E’ da allora che diviene “chiaro il coraggio di Yul”, la scelta di “aspettare che quel casino finisca”, “aspettare fuori dall’Europa”. Siamo nel ’75, esce Rimmel di De Gregori, AIDS e Khomeini tarderanno ancora qualche anno a galvanizzare i nuovi moralisti di turno e l’America, tutto sommato, è un paese con liberi e disinvolti rapporti sessuali, tanta erba e dell’ottimo acid rock. Un romanzo on the road, vissuto in corsa con una vecchia Ford Mustang ed altri possibili espedienti. Non c’è pausa che non sia un bizzarro e folgorante amplesso, un sesso che, prima di tutto, è ritmo. Si susseguono perlopiù momenti esilaranti lasciando comunque spazio a brevi innesti di considerazioni e qualche fugace flash poetico. L’intera vicenda si articola in California con paio di sortite in Messico e l’epilogo finale coast to coast  verso New York, con meno di quattro giorni a disposizione per restituire un’automobile a noleggio e pochi soldi a disposizione. Un finale scandito in viva diretta, con brevissimi paragrafi di percorso e l’onnipresente radio, soundtrack  sull’orizzonte americano. I percorsi di Leo, Sal e Walter si divideranno e ritroveranno in California, riportando e condividendo gioie e dolori in un’indomita voglia di farcela che culmina con Born to run, a Paterson: ” poco più di un’ora dalla meta”. Leo tornerà piuttosto malridotto e provato dal suo più profondo viaggio in Messico, dove si respira ancora il profumo di droga e miseria amalgamato da Kerouac. Un’inaspettata e violenta resa dei conti lo attende con un tassista di frontiera. Sal, innamorato poco ricambiato da Cristine, si ritroverà l’auto sabotata, lei in ospedale ed il relativo padre pronto a fargli causa. Walter sarà molto più sottilmente vittima di Charlotte, la sorellina di Gloria, rischia anche lui qualche brutta denuncia, è amareggiato ma non salterà l’ultimo grande evento: il concerto al Golden Gate Park di San Francisco. Leo, tra succulente scopate (ciliegina sulla torta Lourdes, la cilena), è sempre alla ricerca di Mr. Miller; lo troverai poi, a meno di cinquecento metri, degente in un centro clinico. La musica è cornice ovunque in un’America dove ancora tutto è possibile, quella di Crosby, Stills, Nash e Young, John Cipollina, Jerry Garcia, Grace Slick.. Resta il retrogusto del miele spalmato sopra Agnese, Clara ed il sogno del cinema, il tempo che scorre e mai vanifica, semmai impreziosisce rendendo i ricordi più fluidi, più permeabili alla fantasia: quanto ingenera futuro. Allora una sera Yul, il più veloce, viene a sfiorare una spalla accompagnando il lettore insieme all’autore in un antico file del computer. Una sera in cui riscoprirci più umani e più vivi, disincantati e partecipi a quanto ci lega a quella stessa estate, quella di Yul.

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