Una sintesi e una riflessione sugli organismi geneticamente modificati
Il problema
Sono cosciente dell’indefinitezza e della viscosità dell’argomento che vado a trattare e proprio per questo vorrei provare a fare chiarezza, almeno per quanto mi è consentito e nei limiti dell’opinabilità, sul tema (vitale) degli organismi geneticamente modificati (OGM).
Negli ultimi confusi tempi post-moderni, nelle società altamente evolute di questa surmodernità pluristrato, si sta aprendo un ampio dibattito attorno a molti e delicati temi della Bioetica; in istanti mai così virtualizzati, ecco, riproporsi a noi la vita con tutta la sua urgenza materiale, in tutta la sua pienezza, eccola a ricordarci che abbiamo ancora radici nella terra, che abitiamo ancora un mondo naturale e a questo – dopo l’ebbrezza dell’industrialismo – dobbiamo dare delle risposte. Tra i molteplici e cocenti temi bio-etici, un ruolo di spicco è sicuramente riservato all’utilizzo di piante geneticamente modificate in agricoltura. In queste righe cercheremo di sciogliere i nodi più intricati di una discussione nata attorno alla manipolazione del DNA (ad operazioni che vanno ad incidere direttamente sulle basi della vita naturale ed umana), che ha destato rapidamente l’attenzione di Scienza, Politica e Società, aprendo questioni legate alla morale, ma non solo a quella. Voci discordanti intonano motivi in contrasto tra loro, una cacofonia preoccupante in cui, secondo alcuni, l’alimentazione basata su OGM avrebbe ripercussioni, anche gravi, sulla salute umana, secondo altri, gli effetti nocivi rappresentano solo uno spauracchio demagogico; certi sostengono che l’Europa, e in particolare l’Italia, sia immune dalla presenza di OGM e altri sostengono che la situazione europea sia già sufficientemente grave e contaminata. La confusione viene confermata osservando i principali articoli usciti negli ultimi 6 mesi, dai quali si ricava un quadro eterogeneo ma di sicuro allarme, proprio in virtù della contraddittorietà che lo caratterizza. Sul quotidiano nazionale “La Stampa”, ad esempio, un articolo uscito agli inizi di Novembre 2006, rivelava che da test condotti su alimenti venduti in diverse nazioni europee, risulta che 1 prodotto (contenente cereali) su 5 presenta tracce di OGM. L’ultimo registro europeo su “OGM e contaminazione genetica” stilato da Greenpeace, nel 2006, rileva, invece, 142 eventi di contaminazione di dimensioni rilevanti ad opera di Mais transgenico. Ancora, secondo i risultati di un recentissimo progetto finanziato dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, e coordinato dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), gli OGM producono effetti metabolici diversi rispetto a quelli dei prodotti alimentari tradizionali, ma non si è ancora in grado di stabilirne eventuali ripercussioni nocive nel lungo periodo. Secondo il Journal of Agricultural and Food Chemistry del 16 novembre 2005, invece, gli OGM sarebbero diretti responsabili di ipersensibilità cutanea e flogosi polmonare. Davanti a tutti questi dati, fa un certo senso la leggerezza con cui, a cadenza mensile, l’UE liberalizza l’ingresso di prodotti alimentari OGM nel territorio comunitario. Attualmente la superficie mondiale coltivata a OGM si attesta attorno a 90 milioni di ettari (la superficie agricola mondiale è di circa 700 milioni di ettari) e il tasso di incremento annuo di queste superfici è pari all’11%.
La storia
L’annosa vicenda delle piante modificate geneticamente mosse i suoi primi passi circa trent’anni fa, quando alcune delle più importanti multinazionali del pianeta s’incamminarono sulla strada della cosiddetta Ingegneria Genetica, nel tentativo di creare piante resistenti e più produttive. Queste piante “super-dotate” furono frettolosamente indicate come soluzione a tutti i problemi del mondo agricolo e, come suggerito dai più audaci, ai problemi della fame nel mondo. Già dai primordi, però, attorno alle varietà OGM, si svilupparono preoccupazioni di diversa natura: come la possibilità che le piante transgeniche divenissero infestanti e resistenti agli erbicidi, che potessero promuovere allergie o patologie gravi per il consumatore e contaminare le colture tradizionali attraverso lo scambio di polline. Coperte da imponenti interessi economici, queste presunte preoccupazioni furono via via stemperate, nel tentativo di protrarre nel tempo il lucroso commercio delle sementi brevettate. Solo a metà degli anni ’90, le associazioni di consumatori, più organizzate e informate che in passato, esigerono maggiori informazioni riguardo alle nuove tecnologie agricole, spingendo alcuni illustri scienziati a far chiarezza sul reale potenziale invasivo delle piante transgeniche. Nell’incertezza tipica di questa nostra epoca, divisa tra l’interesse delle multinazionali americane e i tumulti di una re-inventata cultura alimentare, nel 1998, la Commissione Europea, interpellò alcuni studiosi per far luce sulle ombre aleggianti nel panorama degli OGM. Gli stessi studiosi, con grande leggerezza, si pronunciarono in modo negativo, sostenendo che qualsiasi preoccupazione non aveva alcun fondamento, né motivo di esistere. In forza di questo giudizio, l’UE decise di procedere alla coltivazione in pieno campo delle piante OGM. Per fortuna (qualcun altro dirà purtroppo) solamente qualche mese più tardi, si verificarono i primi effetti di contaminazione delle piante tradizionali da piante OGM. In conseguenza di questa spiacevole – ma assolutamente prevedibile – scoperta, nel 1999, venne emanata una moratoria per vietare la coltivazione di piante transgeniche in pieno campo. Negli anni seguenti, tale moratoria, fu più volte messa in discussione, senza che alcun reale cambiamento giustificasse nuove ipotesi. Mentre tra le alte sfere d’Europa accadde tutto questo, il 75% degli europei decise di non servirsi alle proprie tavole di alimenti di origine transgenica (sondaggio Eurispes), sebbene le multinazionali, e gli studiosi al loro servizio, difendessero ancora strenuamente l’idea che, i prodotti OGM, dovessero essere considerati equivalenti a quelli dell’agricoltura tradizionale. L’UE decise comunque di richiedere che gli alimenti transgenici, insieme a quelli con un tasso di geni modificati superiore all’1%, venissero contrassegnati da un’etichetta (UE, 1999). Alcuni pareri (nel fertile campo degli OGM) sottolinearono, che alimenti come gli oli, privi di DNA, sarebbero sfuggiti alla possibilità di un controllo analitico, tanto che l’etichetta sarebbe stata una palese assurdità. Gli stessi interessati pareri, si dimenticarono di considerare che tale difficoltà poteva essere facilmente superata grazie alla tracciabilità, già operativa per alcuni prodotti alimentari. In altre parole, se fosse stato necessario indicare tutti i passaggi di filiera, si sarebbe potuti risalire, in ogni momento, alle origini dei prodotti, chiarendo se le colture di base fossero o non fossero transgeniche. Quindi, la tracciabilità avrebbe convalidato l’etichettatura e fatto da garante nel caso in cui il controllo sul prodotto finale non fosse stato possibile.
L’attualità
Siamo ormai ai giorni nostri, e qualcuno si potrà legittimamente chiedere: i prodotti transgenici devono essere tracciati ed etichettati, perché continuare a proibirne la coltivazione in pieno campo e la comparsa sui mercati? Dal momento che i consumatori hanno la possibilità di scegliere, per quale motivo proibirli? Il quesito può sembrare logico soltanto dimenticandosi del problema iniziale, che aveva consigliato l’istituzione della moratoria: la contaminazione.
Dopo aver sancito il principio di non-equivalenza tra prodotti transgenici e convenzionali, in forza della tracciabilità e dell’etichettatura, l’UE formula ora il principio di coesistenza tra agricoltura OGM e agricoltura tradizionale e biologica. Purtroppo, “l’intero mondo scientifico lo conferma: non c’è modo di assicurare alle colture biologiche l’isolamento dai geni GM soprattutto se le piante transgeniche vengono coltivate su grandi estensioni” (Warwick e Meziani, 2003). In base a questo principio l’UE afferma oggi che le due agricolture devono coesistere, ma è compito di ogni paese decidere come. A questa stregua, gli OGM, introdotti in pieno campo, potrebbero eliminare l’agricoltura biologica, però, la UE, perfettamente consapevole di questa circostanza, demanda ipocritamente la responsabilità dell’eventuale estinzione ai governi dei paesi membri. Insomma, assegna agli altri un compito per lei troppo oneroso.
L’ipotesi che s’è andata più diffondendo tra i paesi dell’Unione Europea, è quella di dar vita ad estesi compartimenti territoriali coltivati a OGM, isolati da quelli ad agricoltura biologica e tradizionale. A ben guardare, si tratta di un’ipotesi impraticabile, se si considera che gli insetti possono andare a raccogliere il polline fino a più di dieci chilometri di distanza, ragion per cui lo spazio di rispetto tra i suddetti compartimenti dovrebbe essere davvero considerevole e comunque non sufficiente a garantire una sicura protezione. Se per il mais eventuali strategie d’isolamento potrebbero avere qualche speranza di successo, dato che la specie è di origine americana e non trova in Italia piante spontanee impollinabili, per la colza, che può ibridarsi con numerose specie selvatiche, non sarà mai possibile creare un isolamento tanto efficiente. (In un mondo tanto bizzarro, in barba ai fioretti e alle belle parole legate alla conservazione della biodiversità, la Monsanto o la Sygenta e i loro interessati studiosi – ne sono certo – giungeranno all’unica soluzione ottimale: la distruzione di tutte le piante selvatiche che fungono, come ponte biologico, alla diffusione dei geni modificati.)
Concluso che il principio di coesistenza è fittizio, la sospensione della moratoria decreta la fine dell’agricoltura tradizionale e va in senso opposto a quanto affermato dall’UE in vari documenti programmatici: un’agricoltura che concilia l’ecologia e l’economia, la conservazione della biodiversità e la produzione di derrate, optando per la qualità, tutelando i prodotti tipici e la sicurezza alimentare dei consumatori. Mentre l’agricoltura biologica è in grado di garantire tali obiettivi, non sono chiari i vantaggi di scelte operate a favore degli OGM. Le multinazionali delle biotecnologie non hanno mantenuto nessuna delle promesse effettuate (V. Shiva, 2003): le varietà di colza tradizionali, per esempio, producono quanto la colza transgenica (in alcuni casi di più), l’uso della chimica, che con gli OGM avrebbe dovuto diminuire, sta invece crescendo, poiché le piante sono divenute resistenti agli erbicidi, e il mais Bt si è rivelato più volte incapace di controllare le infestazioni della piralide che, peraltro richiede raramente interventi fitosanitari; la povertà e la fame non stanno diminuendo, ma semplicemente concentrandosi alla periferia del mondo. (Menegon, Pivotti, Xiccato, 1999).
La situazione sino ad oggi è rimasta sospesa in una impasse che vede dichiarazioni di buoni intenti (sia il commissario europeo per l’agricoltura (Mariann Boel), sia i ministri italiani dell’agricoltura non perdono occasione pubblica per sottolineare il loro sostegno all’agricoltura di qualità) smentite da provvedimenti volti all’introduzione di materiale geneticamente modificato in suolo europeo. E’ di pochi mesi fa la decisione di Bruxelles che permette di importare la granella di colza GT73 della Monsanto, a scopo alimentare. Questa situazione genera confusione nelle amministrazioni nazionali che non riescono a dare risposte coerenti ad una improbabile convivenza tra colture GM e colture tradizionali. L’ultimo illuminante caso, in tal senso, risale alla metà del settembre scorso, quando in Francia sono stati scoperti, grazie ad un inchiesta del quotidiano Le Figarò) – 1000 ettari di mais GM Mon 810. Il paradosso è che in Francia, nel 1999, fu istituito un comitato di bio-vigilanza, con il compito di controllare e di stabilire la tracciabilità dei prodotti. Questo comitato, alla stessa metà di settembre, non solo, era all’oscuro dei mille ettari coltivati a mais GM, ma non si preoccupò nemmeno di aprire un’inchiesta per rilevare la reale situazione in campo.
Una riflessione
Il primo problema, per importanza, è la contaminazione che potrebbe aver luogo tra le colture GM e quelle tradizionali qualora venissero coltivate in appezzamenti limitrofi. Se questo problema non troverà adeguata regolazione provocherà l’estinzione dai mercati dei prodotti biologici e tradizionali, contravvenendo persino le regole della diversificazione e del marketing. Con cinica ironia, vanno sottolineati i numerosi paradossi legali nei quali alcuni agricoltori biologici, dopo aver subito contaminazioni da geni OGM, non solo non hanno ottenuto alcun risarcimento per essere stati espulsi dai loro circuiti commerciali, ma hanno dovuto pagare, fior di quattrini alle multinazionali per aver coltivato, inconsapevolmente, piante coperte da brevetto (Warwick e Meziani, 2003). Altri interrogativi andrebbero posti al tavolo delle trattative: E’ ragionevole pensare ad incrementare la produttività dell’agricoltura mediante modificazioni genetiche, quando già molti paesi coltivano in regime di sovrapproduzione? Quando uno dei problemi etici più scottanti riguarda lo smaltimento dei surplus, spesso destinati agli inceneritori? Ha senso pensare dell’aumento delle superfici e delle rese agricole, quando i dati degli ultimi anni attribuiscono all’agricoltura industriale un ruolo leader nell’inquinamento del pianeta e la paternità di fenomeni come l’eutrofizzazione, l’avvelenamento delle falde acquifere, la perdita di biodiversità, l’erosione dei suoli, l’intossicazione di frutta e verdura da nitrati? Concludendo, bisognerebbe chiedersi se dalle colture transgeniche si ottengano veri vantaggi economici. Dai dati a disposizione risulta che l’agricoltura biologica, legata alla tipicità dei prodotti e alla conservazione del territorio, sia in crescita nel mondo, e che la sua redditività, almeno in Europa, sia fuori discussione. Ancor più, in un paese come l’Italia, riconosciuto e immaginato nel mondo per la tipicità dei suoi prodotti e del suo paesaggio, ha veramente senso, barattare un ambiente sano e una agricoltura di qualità, con produzioni più abbondanti (e nemmeno sempre) ma meno rispettose?
Questa è una prima riflessione che bisognerebbe sviluppare attraverso una nuova economia della gestione agricola e ambientale, una riflessione che dovrà, in un futuro più maturo e consapevole, portare ad un secondo e più profondo ripensamento: una revisione del rapporto Uomo-Natura, non più basato sulla subordinazione della Natura all’Uomo, né a valutazioni di carattere economico e gestionale, ma sul rispetto e la compartecipazione; una relazione in cui l’uomo, come già nelle idee di Aldo Leopold, ritrovi nella natura la sua casa, un armonico giardino in cui vivere e sviluppare le proprie facoltà, un luogo di cui far parte e essere parte