Nell’ultimo decennio la sociologia si è dovuta confrontate con dinamiche del tutto nuove; fenomeni che hanno reso rapidamente inefficaci gli strumenti di analisi e le teorie della sociologia tradizionale, caratterizzati da aspetti imprevisti e da variabili difficilmente riconducibili entro i quadrati margini delle vecchie modellizzazioni sistemiche. Davanti a questi inaspettati mutamenti della condizione reale (ricondotti spesso sotto il vessillo uniformante della “globalizzazione”), le principali scuole sociologiche hanno dovuto abbandonare i propri velleitari intenti e riconoscere l’utopia dei propri iniziali obiettivi. Se infatti nelle pagine della sociologia tradizionale troviamo il fatuo desiderio di prefigurare l’individuo e la società, di imporre dall’alto modelli a cui conformare la massa – e quindi la considerazione della realtà come materia prima plasmabile dell’ingegneria sociale – nella letteratura sociologica contemporanea, soprattutto a partire dal nuovo secolo, la realtà è vista come qualcosa che ci succede, ci accade disordinatamente, qualcosa di cui né l’individuo, né la società, né le scienze sociali sono amministratori consapevoli. Questi inattesi cambiamenti hanno scontentato molti degli intellettuali appartenenti alle tradizionali scuole di pensiero (politiche, sociologiche, filosofiche, religiose, ec.) che rimasti con i propri obsoleti strumenti interpretativi tra le mani, hanno visto largamente ridimensionare le proprie figure: da detentori delle sacre redini sociali a impacciati lettori di una realtà sempre più sgrammaticata e analfabetica. La Sociologia della Globalizzazione – come l’hanno frettolosamente appellata i più audaci – verte su nuovi temi e muove su nuovi approcci. La progettazione puntuale di ambiti di interazione strutturati, il rapporto individuo/spazio-sociale, la secolarizzazione, lasciano spazio ai temi dell’individualizzazione, dell’incertezza, della precarietà, della fine dello spazio e del tempo, della secolarizzazione dell’uomo da sé stesso. La metafora delle solida struttura, utilizzata da tutta la letteratura sociologica classica, si liquefa in una rete di effimeri rapporti estemporanei, il potere che prima aveva il compito di guidare l’azione individuale con le leggi e con la forza, si nasconde in una dimensione extraspaziale che trascende gli stati nazionali, e abbandona la società ad un processo di deregulation che assume ben presto le forme di una necessità: un contro-processo di autoregolamentazione. Questa duplice e controversa tendenza è ravvisabile ad ogni livello. A titolo d’esempio, possiamo considerare i fenomeni del glocalismo (riscoperta delle identità e delle “radici” legate alla dimensione territoriale, proprio in contrapposizione alla globalizzazione economica e culturale del globo) e delle certificazioni etiche (esigenza di darsi autonomamente delle regole che garantiscano la fiducia e la credibilità agli occhi dei propri utenti). Il nuovo imperscrutabile scenario mondiale ha gettato una sfida del tutto nuova alla sociologia, una sfida basata sull’analisi e la previsione e non più sul modello di analisi/azione che ebbe, nel passato, la sua massima espressione all’interno delle elite politiche e nell’intellighenzia di stampo sovietico. Sono già numerosi i sociologi che si sono espressi riguardo al nuovo ruolo della sociologia e in molti hanno già offerto proprie modelizzazioni della nuova realtà globale, tuttavia, in questa sede, trascureremo le innumerevoli letture dei processi di globalizzazione offerte da raffinati studiosi, quali Wallerstein, Giddens, Harvey o Bordieu, per concentrarci esclusivamente sul pensiero di uno dei più sensibili pensatori contemporanei: Zygmunt Bauman. (Per una rassegna un po’ attempata (ma ancora valida) delle principali teorie sulla globalizzazione in chiave sociologica rimandiamo all’insuperato “Che cos’è la globalizzazione?”di Ulrich Beck, Carocci, 1999)
La società sotto assedio
Nella disquisizione di Zygmunt Bauman, la globalizzazione (se così la si vuol definire) è un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita; tanto in quella delle istituzioni, quanto in quella dei singoli individui. Le forze economiche, infatti, trascesa la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio che le genera, anzi, con lo spazio in generale. L’economia odierna, scappata dalle mani della società e fuori controllo, detta legge e non si prefigura più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a sé stesso. Lontano da un’asettica riproposizione del dogma marxiano, Bauman scandaglia a fondo il funzionamento del meccanismo socioeconomico, fino ai riflessi diretti e indiretti che si proiettano nelle realtà individuali. Secondo Bauman, infatti, le forze economiche generate da corporation trasnazionali ed intercontinentali, muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello stato nazionale – che fino ad oggi era stato lo strumento di governo e rappresentazione delle identità sociali formate su base nazionale – eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere, come si può facilmente comprendere, è quindi rapportato alle tasche di poche elite economiche e finanziarie e lontano da qualsiasi forma di regolamentazione internazionale. La politica, saldamente legata alla propria base statal-nazionale, delegittimata dalla propria incapacità di dare risposte ai problemi globali, preferisce oggi ritrarsi dal proprio ruolo-guida e legittimare, tramite processi di deregolamentazione, la diffusione a tutto campo dei principi dell’economia globale. Questo fenomeno ha risvolti pratici considerevoli nella vita di noi tutti, in primo luogo perché siamo più soli davanti al futuro: l’apparente libertà (spesso individuata nella possibilità di scegliere tra più marche, più locali, più luoghi) che la nostra società offre ai suoi membri, ha portato con sé – come aveva ammonito Leo Strauss – un impotenza senza precedenti, il diritto e il dovere di essere soli. Il potere, rifacendoci ancora alle parole di Bauman, è il potere senza volto e senza luogo della globalizzazione economica, che annulla ogni fermo punto di riferimento, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza nelle nostre esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Le autorità non hanno più alcuna ambizione di prefigurare la società e introducono una forma di controllo assai meno dispendiosa delle precedenti: l’incertezza; il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci una solida presa sul presente e conseguentemente, come rilevava Pierre Bordieu, qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura. Per rendere meno lontane dalla realtà queste parole ipotizziamo un esempio. Vent’anni fa nascere in una cittadina italiana significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, l’onere e l’onore di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Un futuro che fino agli anni 1970 assumeva dogmaticamente una connotazione positiva, veniva ritenuto “migliore dell’oggi” e anelato come un gradino sempre più alto nella scala del progresso. Le crisi degli anni ’70 (economiche, culturali, ambientali) furono invece effetti e cause della fine di questa visione finalistica dell’uomo e del suo futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i figli seguono le vicissitudini lavorative di genitori alla rincorsa di opportunità di lavoro fugaci, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero ritenere economicamente più vantaggioso spostare le proprie produzioni all’estero, e potrebbero farlo senza alcun impedimento o regolazione internazionale. Allo stesso modo gli studenti sono spesso costretti ad emigrare, all’inseguimento di seducenti opportunità sempre più volatili ed evanescenti. Questo determina appunto la perdita di una sicura presa sul presente e di conseguenza di qualsiasi capacità di programmare il futuro. Venuto meno il confortante disegno di un posto di lavoro sicuro, di una dimora stabile, di una rete di contatti duraturi, è ancora possibile pianificare un progetto di vita familiare? E’ ancora possibile immaginare una vita ciclica e routinaria? E’ plausibile coltivare interessi, attività e impegni che ci leghino inscindibilmente a luoghi e vadano oltre la pura utilità materiale? Le spinte all’individualismo e alla competizione gonfiano le vele di questo stile di vita veloce che porta con sé una nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Gli “Altri” divengono così avversari da sovrastare, possibili contendenti dell’opportunità migliore, e “utili” solo, e solo nel momento, in cui “ci servono”; i rapporti umani, come quelli con gli oggetti, non ci devono legare a lungo termine: per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, ci dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno. Da quando Margaret Tatcher ha sentenziato che la società – per la politica – è morta, demandando qualsiasi responsabilità agli individui, costringendo i nuovi cittadini globali a trovare – come suggerito da Ulrich Beck – soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche, a non fare più affidamento su alcun interlocutore istituzionale, ma solo sulle proprie capacità, è tramontato il vecchio concetto di Società ed è nata una nuova immagine del sociale, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più soli nelle proprie vite. Questa approfondita disamina degli effetti della globalizzazione sugli individui (poi, ripresa e approfondita dallo stesso Bauman nel libro “Globalizzazione: gli effetti sulle persone“), non toglie spazio anche alla critica riguardante i risvolti negativi dei processi di espansione dell’economia globale: il crescente divario tra la condizione dei poveri e delle fasce di popolazione ricche, la globalizzazione a senso unico, la crisi ambientale che diviene, oggi più che mai, questione etica.
Quel che è veramente speciale in queste pagine di Zygmunt Bauman è una analisi condotta in modo rigoroso ma partecipe, un’indagine compiuta senza dimenticare la sensibilità e l’umanità che “dovrebbero” appartenere allo scienziato sociale. In queste osservazioni si avvertono la tensione emotiva e il coinvolgente essere partecipe del sociologo polacco alla scrittura, all’analisi e all’interpretazione. Una disamina critica di un mondo che si trova a doversi confrontare con una nuova sfida per il futuro e che mai come al presente necessita di un cambio di rotta radicale, dove i valori umani vengano rinnovati e portati al centro del dibattito, dove l’uomo possa tornare a considerarsi tale, nel dialogo con le differenze, nell’indulgenza e nell’aiuto verso gli “Altri” tre quarti del pianeta che giacciono in condizioni deplorabili, dove la politica si faccia carico della nuova sfida e delle proprie responsabilità creando istituzioni globali adatte ad assolvere i nuovi ruoli, che confini più ampi impongono come necessari. Un folgorante illuminazione sul presente, scritta intensamente, ricca di richiami e citazioni, di informazioni e punti di vista, di compassione e ironia. Una chiave di lettura per comprendere questi nostri fluidi tempi post-moderni.