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Il bosco della bella addormentata – Patrizia AZ

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La copertina indurrebbe a pensare ad una favola. Il bel romanzo di una vita rosea vissuta su prati inondati di sole, ai margini di boschi freschi ed aulenti. Niente di più bucolico, vero? Basta però girare il libro o sfogliarne qualche pagina a caso per comprendere che – fortunatamente – c’è ben altro da leggere in questa che è l’opera prima ed autobiografica di Patrizia AZ, “Il bosco della bella addormentata“, edito da ARPANet.
Si tratta infatti della narrazione del risveglio morale e psichico, seguito ad un lungo e terribile periodo di “sonnambulismo”, messo coraggiosamente nero su bianco dall’autrice che non si risparmia, porgendo in dono la delicatezza e la fragilità della propria vita. Lo fa con veemenza, ghermendo il lettore, avvinghiandolo con parole forti e taglienti di cinismo, sospingendolo ad inoltrarsi nel bosco. Questo luogo-archetipo che come già accennato, si allontana drasticamente dal mondo delle fiabe, poco propenso all’incanto, ma vero e proprio non-luogo sintesi d’orrore e disperazione.
Patrizia AZ compie dunque un atto di decostruzione e rivisitazione che, al pari di quello compiuto da Angela Carter in “The bloody chamber“, rovescia i canoni del fiabesco mostrando i risvolti tetri e devianti, malinconici e perduti, che lo rendono riflesso deforme del reale. Qui le principesse devono rassegnarsi a risvegli bruschi e colmi di lacrime, contare sulle proprie forze, poiché i principi non sono che individui goffi, prigionieri anch’essi di paranoia e nevrosi.
Il romanzo si pone dunque, usando le parole della stessa autrice, quale “opera al bianco”, antitesi concettuale a “L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar. Certo, si parte da un incubo prolungato – che pare a volte avere la meglio – ma se ne esce con lucidità e consapevolezza. Molte le sconfitte fisiche e morali, sofferenze che si attorcigliano in spirali perverse e nessun happy ending scontato, ma un ventaglio di possibilità che si dipana. E una grande conquista che sta appunto nella ritrovata voglia di lottare per una vita serena, senza più voltarle le spalle, in cerca di fughe inutili.
Bologna si staglia, indifferente e pingue, sullo sfondo di questa storia. Remota come non mai dallo stereotipo che la vuole gaudente e cordiale. La troviamo invece città di istituti per orfani abbandonati a se stessi ed in un battito di ciglia sarà poi la città schiacciata ed assediata dai carri armati del ’77. Città dell’amara sconfitta di ideali giovanili e lotte soffocate nella violenza prima e nell’eroina poi.
Ecco. L’eroina. Altra grande protagonista delle vicende narrate da Patrizia AZ. Signora e dominatrice degli anni 80, ci apre angoli inediti del capoluogo felsineo. Scorci insoliti, a prescindere dal rosso dei tetti. Una prospettiva che non riesce ad innalzarsi, che striscia sul pavè di portici maleodoranti, che non lasciano intravedere il cielo. Cielo comunque “grigio e sordo come un blocco di ghisa”: sembra appunto preso a prestito da “Le straordinarie avventure di Pentothal” di Andrea Pazienza, da cui del resto fluisce anche quell’atmosfera densa lattiginosa d’incoscienza e smarrimento in cui nuota la nostra Bella Addormentata.
Questo dunque il teatro che ospita il dramma di Patrizia, sempre in bilico tra fughe e ritorni, tra libertà e necessità prepotente di essere amata. Tra una lucidità troppo spesso rinnegata in nome dell’oblio, e un’inconsapevolezza che è al tempo stesso rifiuto della cognizione del dolore.
Immediato e spontaneo allora tracciare un parallelo tra questa autobiografia e quella di Christiane F.. Berlino trasfigura in Bologna, con uguale portata di vittime falciate dalle medesime tristi vicende. Alcune differenze sono però sostanziali. Ne “Il bosco della bella addormentata” è sempre palpabile l’ansito alla salvezza, la determinazione a non cedere del tutto, non cadere mai troppo in basso. Una forza interiore, una luce intellettuale – a volte assume le caratteristiche impertinenti dell’ambizione, della volontà d’ascesa sociale – che in qualche modo riesce a non spegnersi dentro Patrizia, sfumando così quella disperazione che invece attanaglia la protagonista di “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino“, tingendosi del nero più cupo.
Inevitabilmente scorrendo le pagine di questo libro avremo la sensazione di ritrovare cose già lette, sentite mille volte. Io ci ho ritrovato la cronaca, gli spauracchi dell’infanzia, quando la droga era fenomeno mediatico strillato ma più che mai sconosciuto e per questo vieppiù spaventoso. Come pure spaventose erano le creature che ne facevano uso. Mostri appiattiti contro i muri dei vicoli, confusi tra i cartelloni pubblicitari mezzo staccati. Deprivati di qualsiasi dimensione psicologica, di profondità.
Così “Il bosco della bella addormentata” mi ha ri-raccontato quegli anni con le parole di una fiera sopravvissuta, che ha ridato loro umanità, scansando ogni accenno di buonismo fasullo. Una sincerità disarmante sta infatti alla base di questa scrittura impetuosa che cerca il lettore per ottenere catarsi e, come ogni buona autobiografia, chiudere col passato una volta per tutte.

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