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“Lo sterminio degli errori – Nāgārjuna”

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Un importante contributo alla tradizione buddista

 

Non è affatto facile ritrovarsi davanti alle poche pagine de “Lo sterminio degli errori“, del grande filosofo indiano Nāgārjuna, senza provare un certo senso di disorientamento e, in ogni riga, un concetto in cui perdersi. Nonostante questo iniziale smarrimento, i versi armonici, intrisi di metafore lontane, presto lasciano trasparire un fascino che cattura e conduce con lentezza a sé. Per comprendere appieno la portata spirituale di quest’opera, una delle più rilevanti nella dottrina buddista, bisogna servirsi degli arnesi della conoscenza e cercare di comprendere a fondo come le varie scuole buddiste abbiano commisurato la propria azione, e i propri postulati, ai contenuti di queste pagine.

Nel secondo secolo dopo Cristo, all’interno della proteiforme tradizione buddista, si diffusero nuovi concetti destinati a cambiare in maniera significativa le scuole che a quella stessa tradizione facevano riferimento. In particolare, tra le nuove nozioni, andò acquistando importanza l’immagine del Bodhisattva, di colui che pur avendo accesso al nirvana, vi rinuncia temporaneamente per offrire la propria assistenza nel samsara, alle anime impegnate nella trasmigrazione. Questa nuova figura, si prefiggeva di divenire un Grande Veicolo per assicurare la liberazione di tutte le creature e sostituiva la precedente scuola del Piccolo Veicolo, opponendo all’immagine di pochi Buddha giunti al nirvana, l’immagine di una molteplicità di Buddha pronti a soccorrere le anime in difficoltà nel loro cammino spirituale.

Tra le prime testimonianze di questa nuova temperie religiosa e filosofica è necessario citare i testi della “Perfezione della gnosi“, un insieme di opere nuove e difformi, attribuibili al Buddha, scritte per lo più in forma di dialoghi e incentrate attorno all’idea che la virtù più alta, quella che rappresenta il fine stesso di un cammino spirituale, sia la saggezza o gnosi. Secondo tali tesi, infatti, l’intuizione della vera natura delle cose non permette solo di liberarsi dal velo offuscatore dell’ignoranza, ma di affrancarsi dai limiti materiali dell’esistenza e porre fine all’infelicità e alle sofferenze. In questi testi non si riscontrano sempre concezioni unitarie, anzi è usuale incontrare discordanze e contraddizioni; tuttavia esse sono intrinsecamente accomunate dal concetto di Vacuità, secondo cui ogni cosa è vuota di natura propria: sia l’individuo e i suoi aggregati psicofisici, sia il mondo esterno.

Proprio in  questo solco si pone Nāgārjuna, che nei suoi trattati filosofici, risalenti al secondo secolo d.C., delinea e formalizza la propria teoria della vacuità, giustificandola in forma logica e aprendo una nuova fase del pensiero buddista. Non a caso il filosofo indiano venne definito, dai suoi epigoni e continuatori, come “colui che ha messo in moto la ruota della legge per la seconda volta”.

 

Olismo e Vacuità

 

Per Nāgārjuna l’unica realtà è la Vacuità; non intesa come negazione assoluta o degenere forma di nichilismo, quanto piuttosto come l’impossibilità che qualsiasi cosa possa esistere di per sé, indipendentemente da tutte le altre. Quando ci rapportiamo alla realtà quotidiana facciamo uso del linguaggio discorsivo, che distingue le varie cose e le considera separate le une dalle altre. Per il filosofo indiano, se da un lato è necessario distinguere tra la causa e l’effetto, tra l’alto e il basso, il samara e il nirvana, da un punto di vista assoluto credere che queste dicotomie e cristallizzazioni rappresentino la realtà profonda delle cose, l’intima essenza della vita, produce solo sofferenza.

Nāgārjuna suggerisce, così, per giungere alla saggezza, la necessità di smantellare ogni sovrastruttura di pensiero, superare le categorie del linguaggio discorsivo, affrancarsi dalle opinioni formate in base alle realtà evidenti o relative. Thich Nhat Hanh, soleva fare un esempio per rendere semplice tale concetto: “Un poeta guardando questa pagina, si accorge subito che dentro c’è una nuvola. Senza la nube non v’è pioggia; senza pioggia gli alberi non crescono; e senza alberi, non possiamo fare la carta. La nuvola è essenziale per l’esistenza della carta. Possiamo allora dire che nuvola e carta non “sono”, ma “inter-sono”. Se guardiamo questa pagina in profondità vedremo la luce del sole; se guardiamo ancora meglio vedremo anche noi. Non è difficile capirlo: quando guardiamo il foglio di carta, questo è un elemento della nostra percezione. Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, l’acqua, la luce, il calore. Ogni cosa coesiste in questo foglio. “Essere” è in realtà inter-Essere.” Insomma è qui richiamato il concetto dell’olismo, caro a molte scuole di pensiero orientali, dell’Uno e del tutto interrelato. Quel che fa più specie, è la portata rivoluzionaria di questo concetto che, nato in un arcaismo filosofico, anticipava notevolmente le stesse conclusioni sorte in occidente con le dimostrazioni scientifiche di Haeckel e con l’Ecologia, la scienza delle relazioni, quasi due millenni più tardi.

Questo ritardo del pensiero occidentale è stato chiaramente ravvisato anche nella società contemporanea, evidenziato dall’opera di alcuni filosofi e pensatori come Arne Naess, Aldo Leopold, Holmes Rolston III, e dovrebbe, nel nostro presente, porre in essere una avveduta riflessione attorno ai temi dell’ambiente, dell’esistenza futura e, infine, della sostenibilità del vivere. Il concetto di vacuità, del resto, non può appartenere ad un sistema sociale basato sull’accumulazione di beni materiali o su forme di consumo compulsive; non di meno, il concetto di coesistenza – oltre a non essere stato internalizzato nel nostro carattere sociale – viene ripetutamente trascurato alla luce dei risultati portati dalle ricerche scientifiche, che ogni giorno evidenziano la nostra miopia verso l’ambiente e il futuro.

Ecco, in breve, come contestualizzare al presente il pensiero del saggio indiano, evitando inutili chiusure aprioristiche, lasciando ogni pregiudizio di distanza,  tentando di trarre dalle parole di un “Altro”, lontano nello spazio, nella cultura e nel tempo, insegnamenti mai così validi e attuali.

 

Struttura e contenuti del testo

 

L’opera consiste in settanta versi seguiti da un auto-commento ed è divisa in due parti. Nella prima parte, il pensatore indiano, da voce ad un ipotetico detrattore delle dottrine della non sostanzialità e vacuità delle cose e di tutti i fenomeni. La seconda parte contiene le repliche di Nāgārjuna e la dimostrazione della validità delle sue tesi. L’alterco, tra il filosofo e il suo oppositore, verte soprattutto sui mezzi più idonei per pervenire alla corretta conoscenza. Mentre la tradizionale scuola logica indiana aveva catalogato quattro modalità per arrivare ad una esatta conoscenza (la percezione diretta, l’inferenza, l’analogia e l’autorità), Nāgārjuna, patendo dal presupposto che nessun fenomeno o oggetto detiene una propria sostanza, smontava e demitizzava tali strumenti che, davanti ad entità vuote, non avevano alcuna utilità. Altro concetto di una certa rilevanza è la critica al modo in cui le antiche scuole buddiste intendevano gli elementi ultimi cui si riduce qualsiasi fenomeno fisico o mentale. Tali scuole consideravano gli elementi ultimi come entità reali, dotate di natura propria, mentre Nāgārjuna negava che potessero averne una a se stante, poiché ciò li avrebbe resi incapaci di svolgere le proprie funzioni e logicamente insostenibili.

 

La liberazione di tutti gli uomini

 

Con Nāgārjuna prende corso la dottrina del Grande Veicolo e, con tale dottrina, una concezione decisamente aperta del cammino verso la saggezza, che diviene un orizzonte comune, a cui ogni anima può legittimamente aspirare, a patto che si comprenda nel suo fondo l’idea di Vacuità e le conseguenze ad essa connesse. Sono pagine brevi, queste dell’asceta indiano, ma ricche di spunti teorici di riflessione, di punti di vista distanti. Un libro che per essere esperito in tutta la sua sconvolgente rivoluzionarietà, deve essere letto e vissuto: il tempo della lettera si deve fare, insieme, il tempo della vita. Una recensione, del resto, si pone ampi margini di sintesi e superficialità e non può certo condurre, in poche righe, a comprendere univocamente una delle idee filosofico-religiose che hanno cambiato la geografia del pensiero umano, almeno nella sua parte più orientale. Uno sguardo ad un tempo semplice e radicale al nostro rapporto con l’anima e con la realtà. Appunti di “viaggio” che potranno dare alcune indicazioni a chiunque nella propria vita stia percorrendo le vie dello spirito, la strada che porta alla Verità. Altresì, troveranno una imperdibile opportunità di confronto, anche coloro che percorrono un cammino di conoscenza spirituale al di fuori di una cornice religiosa, sopra ogni sovrastruttura, fuori da ogni ideologia.

 

La Vacuità male intesa manda in rovina l’uomo di corto vedere così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata. E per questo, la mente dell’Anacoreta si era ritratta dall’insegnamento della legge, pensando alle difficoltà che avrebbero avuto gli uomini di corto vedere a penetrarla

(Nāgārjuna, Lo sterminio degli errori, Rizzoli, Milano, 1992, p. 12)

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