“Medea, Medea, Medeaaa…” un urlo folle e disperato come la corsa senza prendere fiato attorno al letto in ferro battuto, unico elemento della scena, nuda come lo sono i due protagonisti. Medea e Giasone. Al loro ingresso una marcia nuziale continuamente distorta da sonorità elettroniche, lei tenendo lui per il membro e sorridendo all’immaginaria folla un po’ divertita e un po’ emozionata. O forse, cosa che si scorge man mano che la coppia avanza, un sorriso da rivista patinata, di quelli che si offrono al pubblico curioso e annoiato dei TG, un sorriso di superficie che si fa beffa del luogo comune che sia l’uomo a portare i pantaloni. Qua nessuno dei due li porta ma fin dall’inizio è chiaro che la forza è la forza dell’istinto, del gioco sessuale e della scelta del proprio destino che appartiene alla donna.
La prima parte è un susseguirsi senza respiro di gioco (erotico) e dolore (del parto di Medea) in un andirivieni costante, in un prendersi e lasciarsi, rincorrersi e incontrarsi, baci e amplessi per niente velati all’interno e all’esterno, sopra e sotto il letto che viene continuamente costruito e de-costruito dagli attori in scena.
Medea si muove come un animale, nuda e ferina, si arrampica e capovolge, allatta i figli come una lupa e presta il corpo alla maschera-figlio (una maschera-bebè in lattice) ridicola e inquietante.
Praticamente non v’è parola e quando c’è è pura sonorità: tedesco, greco, una sorta di slavo con un piccolo pezzo in italiano (il meno forte del resto).
Tutto è corpo e suono nell’intento di uscire dal mito per entrare nell’intimo dell’amore tra un uomo e una donna che è uguale oggi come ai tempi dei greci. Giasone non ha niente dell’aurea mitica degli Argonauti; pelato, con una bella pancia e le scarpe nere da cui spuntano i calzini bianchi, sbava, piagnucola e si masturba in continuazione riuscendo inquietante e uomo solo nel momento del rifiuto di Medea quando , nonostante gli salti addosso, lo baci e lo accarezzi in una iterazione disperata e in una supplica lacerante, lui rimane lì, fisso e immobile. Duro come pietra.
Medea urla, impreca, lo scaccia, invoca la madre e da vittima in un crescendo emotivo e animale torna a essere donna e carnefice. Buio. Il resto della storia prevede altri due episodi: Medea e figli Medea dea.
Si ride molto (mai a squarciagola) si rabbrividisce ma non c’è mai lo spazio distensivo per lasciarsi andare alle lacrime.
Latella usa un montaggio serrato e ansiogeno, a tratti fastidioso (quando insiste senza tregua sugli amplessi erotici dei due), sicuramente originale nella capacità di non far morire la tensione, di svuotare di significato mitologico e storico una tragedia abusata ma che nell’intimo riesce ancora a travolgere per la dirompente sensazione che le domande che pone Euripide sono quelle di sempre, quelle dell’uomo.
Gli attori sono bravissimi, animali, acrobati ed emozionati. Soprattutto lei. Niente è tenuto dentro, tutto è esplicito, all’estremo opposto della Medea di Pasolini e nelle vicinanze carnali (anche se qui qualsiasi simbolo viene annullato e negato) di quella di Lars Von Trier.