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Il Trattato sull’alto mare: in porto dopo 40 anni

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«Le aree protette in alto mare possono svolgere un ruolo fondamentale
nella costruzione della resilienza agli effetti dei cambiamenti climatici
»

(Liz Karan, Pew Charitable Trusts)

Dopo oltre 40 anni da Montego Bay[1], i membri delle Nazioni Unite hanno raggiunto l’accordo per il Trattato sull’alto mare: il primo testo convenzionale di diritto internazionale per la protezione delle acque internazionali che punta a contrastare le minacce agli ecosistemi oceanici vitali per l’umanità.

Un accordo qualificato come storico da molti e che l’Unione Europea ha definito «un passo cruciale per preservare la vita marina e la biodiversità, essenziali per noi e le generazioni future».

L’alto mare

Finalmente lo scorso 4 marzo la comunità internazionale riunita in seno all’Onu ha approvato il testo della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare relativo alla conservazione e all’uso sostenibile della diversità biologica marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale (in inglese, United Nations Convention on the Law of the Sea on the conservation and sustainable use of marine biological diversity of areas beyond national jurisdiction), meglio nota come Trattato sull’alto mare.

Sebbene non si conoscano ancora in dettaglio i contenuti del nuovo accordo, tutti sappiamo bene cosa si intenda per “alto mare” e quanto questo sia importante per l’umanità.

L’alto mare è l’area al di là delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) degli Stati, vale a dire oltre le 200 miglia nautiche (370 km) dalla costa (le cosiddette “acque territoriali”). Difatti l’alto mare è diventato, negli ultimi anni, uno spazio strategico per molti paesi, con lo sviluppo di tecnologie per esplorare i fondali marini, le questioni relative alla pesca eccessiva e la necessità di proteggere gli oceani dalla minaccia del cambiamento climatico.

In realtà, queste acque internazionali, che rappresentano il 60% dei mari e degli oceani del mondo e quasi la metà del pianeta, non sono sotto la giurisdizione di alcun paese e qualsiasi Stato può navigare, pescare e condurre varie attività a condizione di rispettare la “vecchia” Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare.

Il testo firmato più di 40 anni fa si considera superato e non è più idoneo a regolare per esempio i fenomeni di sfruttamento con le moderne tecnologie che consentono di spingersi sempre più in profondità negli oceani alla ricerca di nuove risorse minerali o biologiche situate in queste aree.

Il nuovo quadro convenzionale

Abbiamo detto che, per il momento, il contenuto del nuovo trattato non è ancora noto, ma stando all’ultima bozza ufficiale[2] il focus del documento è posto sulla necessità di proteggere queste aree dal momento che oggi solo l’1% dell’alto mare è soggetto a specifiche misure di conservazione, mentre l’obiettivo dichiarato in ambito di Cop 27[3] da tutti i governi del mondo era di raggiungere il 30% di terre emerse e acque.

Di sicuro l’accordo introduce l’obbligo di effettuare valutazioni di impatto ambientale delle attività proposte in alto mare, prassi fino ad ora attuata solo a favore delle zone costiere e per alcune specie emblematiche. Eppure gli oceani sono ricchi di biodiversità microscopica, forniscono la metà dell’ossigeno che respiriamo e, assorbendo una parte significativa della CO2 emessa dalle attività umane, mitigano il riscaldamento globale.

Altro punto nevralgico della nuova convenzione è quello relativo alle risorse genetiche marine: organismi e microrganismi che popolano gli oceani e che negli ultimi 50 anni sono stati studiati e sfruttati per sviluppare farmaci e prodotti cosmetici.

Si tratta di virus, batteri, funghi o animali le cui proprietà potrebbero essere a dir poco miracolose e rendere una fortuna!

A titolo d’esempio, il primo trattamento approvato per il Covid-19, il Remdesivir[4], proviene proprio da biomateriale marino, così come l’Halaven, un farmaco antitumorale derivato da una spugna di mare.

Il mercato globale delle biotecnologie marine è stato stimato in oltre 4 miliardi di dollari (dati al 2022).

E queste risorse, quando presenti in acque internazionali, sono al centro di un’intensa battaglia per il loro sfruttamento, per nulla regolamentata. Si comprende dunque una delle ragioni per i continui rinvii che ha sofferto la chiusura di questo accordo che originariamente avrebbe dovuto essere firmato nel 2020.

In particolare, i paesi del Sud del mondo, che non hanno i mezzi per finanziare le costosissime spedizioni e ricerche in questo settore, hanno condotto una strenua resistenza per vedere riconosciuta un diritto alla “condivisione dei benefici” dalle risorse genetiche marine che i paesi più ricchi sfruttano.

Il nuovo trattato dovrebbe quindi portare a un compromesso tra i due interessi per consentire un’equa condivisione.

Materia sensibile che, invece, è risultata esclusa è quella dell’estrazione mineraria dai fondali marini, altra questione altamente strategica che riguarda le acque internazionali. L’alto mare è ricchissimo di materiali cruciali per il futuro delle economie mondiali come il nichel, il cobalto e il manganese, spesso presentato come il petrolio del XXI secolo e utilizzato per la fabbricazione di batterie per auto elettriche o telefoni cellulari, ma i cui giacimenti di terra potrebbe esaurirsi in un prossimo futuro.

Questo tema, oggetto di un acceso confronto tra favorevoli allo sfruttamento rapido e chi propone una moratoria sull’estrazione di queste risorse dai fondali marini, valutandone gli effetti su ecosistemi particolarmente fragili, è disciplinato da un altro organismo, l’Autorità internazionale dei fondali marini[5] (in inglese, International Seabed Authority), fondata nel 1994 sotto l’egida delle Nazioni Unite.

L’Autorità avrebbe dovuto varare un codice minerario già nel 2020, ma se ne attende il via nei prossimi mesi per cercare di regolamentare queste pratiche ed evitare una nuova corsa alle risorse dei paradisi blu.

Le speranze del nuovo trattato

Se bisogna riconoscere il valore storico della firma del Trattato sull’alto mare, manca ancora molto per tutelare in maniera compiuta le acque internazionali.

Le Ong impegnate nella tutela degli ambienti marini hanno apprezzato l’estensione delle aree marine sottoposte a protezione ma al contempo richiamano la necessità di prevedere quali strumenti di protezione dovranno essere attuati nelle diverse aree interessate.

Inoltre, è difficile prevedere quali saranno i tempi d’attesa per l’entrata in vigore della convenzione.

Come detto sopra, i delegati degli stati hanno finalizzato la stesura del testo, ma il contenuto ora congelato nella sostanza, non sarà formalmente adottato fino a quando, dopo l’esame dei servizi legali e la traduzione nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite[6], verrà ratificato negli ordinamenti giuridici nazionali.

Il timore è che i tempi tecnici si allunghino e che i Paesi ricchi non dimostrino entusiasmo per questo nuovo strumento che potrebbe limitare le loro attività nell’alto mare e imporre loro particolari obblighi.

  1. Cfr. Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare altresì nota come Convenzione di Montego Bay, in https://treaties.un.org/pages/ViewDetailsIII.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=XXI-6&chapter=21&Temp=mtdsg3&clang=_en.
  2. Cfr. Draft agreement under the United Nations Convention on the Law of the Sea on the conservation and sustainable use of marine biological diversity of areas beyond national jurisdiction, in https://www.un.org/bbnj/sites/www.un.org.bbnj/files/draft_agreement_advanced_unedited_for_posting_v1.pdf.
  3. Cfr. sito ufficiale della Conferenza, in https://cop27.eg/#/.
  4. Cfr. sito dell’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, in https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1123276/remdesivir_18.09.2020.pdf.
  5. Cfr. sito ufficiale dell’International Seabed Authority, in https://www.isa.org.jm/.
  6. Le sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite sono l’arabo, il cinese, il francese, l’inglese, lo spagnolo e il russo.

 

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