Un brigante bello e aitante cavalca attraverso un altopiano del Tibet assieme ai suoi compagni. Col suo sguardo acuto scruta il cielo e cerca segni che confermino che è sulla strada giusta. È silenzioso, il capo dei “briganti gentiluomini”[1], perché sa di trovarsi in un luogo magico, regno di fate e di demoni, ultimo rifugio dei geni che sfuggono al nemico della natura: l’uomo. Garab è il nome dell’uomo a cavallo ed è capo della combriccola di audaci rapinatori in procinto di sferrare un attacco. Il loro obbiettivo è quello di depredare una carovana di pellegrini diretti a Lhasa per portare doni al Dalai Lama. Saccheggiare i beni di questi poveretti è cosa fin troppo facile per uomini tanto esperti nel campo del malaffare. Garab è anche un ottimo guerriero, abile nell’usare le armi senza ferire a morte l’avversario – lì dove non lo voglia. In men che non si dica i briganti mettono in fuga il gruppo di pellegrini non senza averli prima privati della maggior parte dei loro averi, e lasciando loro giusto l’occorrente per fare ritorno a casa. Entusiasti del bottino di cavalli, sete cinesi di gran valore e lingotti di metallo prezioso, gli avventurieri si preparano a rimettersi in marcia, quando una giovane donna compare dal nulla e si posizione dinnanzi a Garab. Lo guarda fisso negli occhi, ne sfida lo sguardo, gli intralcia la strada. Nonostante gli scherni e le risa dei banditi, la ragazza non mostra segni di cedimento e resta immobile, come una statua, con gli occhi affondati in quelli del loro capo. È Garab a rivolgerle per primo la parola. Le chiede cosa voglia: è evidente che la giovane donna facesse parte del gruppo di pellegrini, ma ora cosa cerca? La ragazza dagli occhi vispi e l’atteggiamento fiero non perde tempo a rispondergli e gli confessa, in un battito d’ali, che si era nascosta per poter seguire proprio lui, Garab. Perché loro sono destinati a stare assieme e ad amarsi: lei l’ha visto, in sogno, che il fato vuole le loro vite unite in un vincolo sacro e inscindibile. Garab non tradisce sorpresa e, anzi, si mostra infastidito da certe stupide romanticherie. Si rivolge con toni duri alla giovane, cerca di cacciarla ma lei insiste a restare e lo implora di portarla via con sé, a cavallo. Una luce particolare deve essere riflessa negli occhi di Detchema, perché Garab alla fine decide di farla caricare da uno dei suoi uomini su un cavallo e di accoglierla nella brigata. Quanto meno avrà con sé una donna pronta a soddisfare ogni suo desiderio e a farlo da consenziente, senza che lui debba infrangere la regola d’oro del loro gruppo.
È dopo la prima notte assieme che qualcosa fa breccia nella dura corazza del capo bandito, perché Garab comincia a provare un insolito trasporto per quella creatura tanto stramba quanto bella e, da quel momento in poi, tra i due nasce qualcosa di importante, destinato a segnare per sempre le loro vite e a sancire l’inizio di una lunga avventura tra le vallate remote del Tibet e alla ricerca del sé.
Magia d’amore, magia nera costituisce uno degli innumerevoli diari di viaggio dell’esploratrice di lande e di cuori perduti che fece delle sue spedizioni in Oriente, a contatto coi buddisti del territorio, un motivo di vita e di scoperta di sé. Sebbene il titolo potrebbe trarre in errore, Magia d’amore, magia nera non costituisce una guida alla magia e/o alla stregoneria con esercizi pratici di questo o di quel filone di scienze magiche, bensì un vero e proprio, piccolo compendio delle conoscenze esoteriche che, ancor oggi, praticano gli iniziati delle valli del Tibet. Al di là del suo valore come documentario di pratiche misteriche orientali, questo libro raffigura uno splendido spaccato sugli usi e i costumi, le tradizioni e l’etica di un popolo a noi lontano geograficamente, ma di cui avvertiamo un recondito richiamo attraverso affascinanti suggestioni che ci attirano verso est.
Il tutto è narrato sotto forma di romanzo, pur essendo un racconto di fatti concreti e reali vissuti da Garab in persona e riportati ad Alexandra durante uno dei loro incontri. La voce di Alexandra si fonde, così, a quella di Garab. I due orizzonti talvolta coincidono e altri si separano, dando vita a una sorta di fiaba per adulti, in cui la voce narrante (che, pur essendo in terza persona, vede il mondo con gli occhi dell’ex brigante) si esibisce sul palcoscenico della narrazione, in piena luce, e la voce della scrittrice le fa da spalla, accompagnandola con discrezione e con qualche timido accenno che viene dall’ombra. Il racconto si snoda, così, agevolmente attraversando, di pagina in pagina e di vallata in vallata, i pensieri e le emozioni dei due personaggi principali, amanti inconsapevoli di un destino negato dalle loro stesse anime, compagni appassionati a cui il lettore finisce inevitabilmente per affezionarsi, menti tormentate dal dubbio e dai rimorsi, unite in un viaggio lunghissimo che li porterà a condividere esperienze mistiche e magiche al tempo stesso.
È nelle loro avventure che giace il segreto del romanzo, negli incontri quotidiani con ciò che eccede l’ordinario e supera l’immaginabile, soprattutto per noi occidentali così poco avvezzi (seppure con un’ampia tradizione alle spalle di questo genere) a credere nel “sovrannaturale” e nell’invisibile.
Cavalcando con Garab e Detchema verso Lhasa, apprendiamo così le tradizioni dei pellegrinaggi al Dalai Lama, l’Onnisciente, e accediamo al suo appartamento privato, dove egli accoglieva con benevolenza le merci (stoffe, turchesi, fucili, selle per cavalli ecc.) che i viaggiatori gli portavano in dono, mentre i chape[2] sedevano attorno adagiati su bellissimi tappeti; si dice che il Dalai Lama emanasse un fluido benefico che scorreva lungo un piumino che teneva in mano e col quale sfiorava il pellegrino venuto a rendergli omaggio. Conosciamo Lhasa, la splendida città immersa tra le montagne, fatta di case basse bianche che sembrano “un’immensa folla genuflessa in preghiera“. Andando a ritroso nella vita dei due protagonisti, scopriamo che il Khang Tisé è un luogo sacro, punto di confine tra il mondo degli umani e degli dei, abitato da demoni ed esseri disincarnati e che, in queste zone misteriose, sia credenza comune che “in realtà la vita non si spiega che per mezzo della morte e viceversa. L’una e l’altra sono facce […] di una medesima realtà: è questa realtà che si deve afferrare“. Attraverso l’amico indiano di Garab impariamo che, nella filosofia induista, le forme vitali sono considerate come la facciata superficiale della realtà delle cose ma che, dietro alle ombre che l’occhio umano percepisce sotto forma di cose reali, si nasconde la vita vera, forza sottile e robusta al tempo stesso che anima l’Universo.
Di pagina in pagina Garab incontra personaggi singolari, ognuno con un vissuto esoterico importante o con un insegnamento da far proprio: appartenenti alle alte o medie schiere di medici-maghi (come quelli del So Sa Ling) impegnati a trovare l’elisir di lunga vita attraverso rituali feroci e crudeli; nagspa[3] in grado di riconoscere gli spiriti e i demoni che succhiano, a mo’ di vampiro, la linfa vitale dai corpi umani; importanti asceti che donano perle di saggezza; compagni di viaggio fedeli.
Come se venisse fuori da Le mille e una notte, Magia d’amore, magia nera si presenta, così, come un’intricata fiaba per adulti in cui il viaggio diventa metafora della lotta perenne che l’uomo imbastisce con se stesso dal momento in cui mette piede sulla terra, ma col valore aggiunto di un racconto realistico che mostra l’estrema complessità del sistema di pensiero e di credenze orientali. Il viaggio di Garab e di Detchema è un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, alla ricerca delle proprie origini perdute, senza le quali nessuno dei due è in grado di andare avanti. La morale che risuona come nota costante del libro è, infine, quella secondo cui la vita attuale, con le sue innumerevoli ingiustizie apparentemente senza senso, si genera da noi stessi e dalle nostre azioni passate. Le persone che ci accompagnano, e i nodi che dobbiamo sciogliere con loro e con l’ambiente circostante, sono i frutti della nostra condotta e della condotta di coloro che alla nostra vita hanno permesso di prendere forma. Ricercare quel “punto d’inizio” può essere utile a comprendere meglio i segnali che la Vita ci manda e a trovare la “via di salvezza”.
[1] In Tibet esiste un rango specifico di briganti detti “bravi”. Loro costume è di derubare i mercanti e i viaggiatori delle loro mercanzie e farne bottino da spartire in modo equanime tra loro. Questi briganti sono in realtà pastori con un loro appezzamento di terreno che coltivano durante l’anno, i quali si riuniscono nei periodi di magra per organizzare scorribande e rimpinguare le loro tasche di qualche soldi in più. Lo fanno rivendendo le merci rubate ai mal capitati, ma hanno un codice d’onore che vieta loro di uccidere e/o di toccare donne e bambini.
[2] I chape sono i consiglieri del Dalai Lama. Letteralmente, il nome vuol dire “piedi di loto”.
[3] I nagspa sono, in Tibet, esperti conoscitori delle formule magiche esoteriche.