L’Iran mostrato da Niki Karimi è ricco, benestante, occidentalizzato (presenti in più inquadrature i loghi della Apple, della Nike e della Marlboro).
Shahrzad è una donna con un buon lavoro, una casa tutta sua, una bella macchina. Non ci sono tracce di guerre passate, di fratture, di miseria. Ci troviamo davanti ad una società che punta diritto verso quei modelli che il resto dell’Oriente sembra così ansioso di distruggere. L’unica differenza, nel film, tra una donna iraniana e una donna occidentale è il velo che la prima deve indossare.
Il film è costruito attraverso il susseguirsi di piccoli avvenimenti quotidiani. Il lavoro, gli spostamenti in macchina, delle telefonate a cui Shahzrad non vuole rispondere, le visite al figlio tenuto in una casa di accoglienza per bambini con problemi mentali. La regista lavora sul lento accumulo di eventi, il cinema si piega a raccogliere la vita, anche e soprattutto nella sua banalità. Gli unici elementi veramente filmci sono forse quelli legati al sonoro. I rumori d’ambiente potrebbero creare significati nuovi rispetto a quello che l’immagine (non) mostra. Rumori della pioggia, il fischiare del vento. La solitudine di una donna e la sua attesa. Si cerca di raggiungere l’esistenza attraverso un minimalismo espressivo e stilistico che mi annoia a morte. Le luci danzanti di una città (forse Teheran, forse no) sono le uniche immagini che riescano in un qualche modo ad emozionarmi. Ma dai personaggi, dalla loro storia, dal loro possibile futuro non rimango minimamente colpito. Lo schermo è là davanti, le immagini scorrono ma io rimango chiuso dentro me stesso. Nulla si riversa, nè emozioni, nè pensieri. Rimango indifferente, come il vento che soffia accanto a Shahrzad. Come il rumore della pioggia che cade quando iniziano a scorrere i titoli di coda.