Ho sempre diffidato da qualsiasi forma di nazionalismo o patriottismo. E ho anche sempre diffidato da chi parla con troppo amore della propria terra. Sono concetti a cui non arrivo, sono idee che non mi convincono. Senso di appartenenza, comunità, popolo. Parole che mi suonano sempre vuote, perché non so bene in realtà cosa significhino. Forse un mio limite. Forse il semplice fatto di non avere mai provato nulla di tutto questo.
Ora, Le voyage en Armènie, è un film pieno di nazionalismo, di amore verso la propria terra. Posso provare a capirne le ragioni, ma non riesco mai a comprenderle pienamente.
Il viaggio di una donna alla ricerca del padre si trasforma in una scoperta delle proprie origini. Dalla Francia in Armenia, dall’occidente a quel che resta del comunismo.
Quello che sembra ancora autentico in questo paese sono i rapporti tra le persone, gli scambi (di denaro, di parole, di emozioni) sono sempre fatti faccia a faccia, non esiste tecnologia, non esistono cellulari o computer. E in questo c’è una purezza dimenticata, quella della spazialità della vita, di un mondo al di fuori di noi stessi da attraversare e vedere. Un mondo semplicemente da scoprire. Infatti la ricerca di questo padre (che lascia tracce per permettere alla figlia di farsi ritrovare) sfuma sempre di più in un percorso di conoscenza nei confronti di una terra e di un popolo al quale Anna capisce di appartiene senza averlo mai saputo. Si riscoprono così le origini, si riscopre un senso di appartenenza. Però oltre al possibile intimismo legato a questa esperienza c’è anche tutto il solito folklore che il regista decide di mostrarci. Le danze, i cibi, la lingua, i costumi, la storia. Un modo per saperne qualcosa di più sull’Armenia. Una nazione lasciata povera dal comunismo e subito vittima degli squali del capitalismo. Pubblicità, consumismo, locali a luci rosse. I germi di un male che noi conosciamo così bene, ma che da tutti viene visto come l’unica forma di società possibile. Un sogno ad occhi aperti, gli infiniti modi con cui arricchirsi. L’illusione che i paesi occidentali siano pieni di felicità e benessere.
Ed è questo che Yervanth rimprovera a Schakè (un uomo e una ragazza conosciuti da Anna durante il suo viaggio), di non amare la propria terra per sognare di andare a vivere in Francia, di voler fuggire quando uomini sono morti per dare all’Armenia la sua indipendenza. E in questo forse il nazionalismo ha senso, nel demolire il modello capitalista e omologante a favore delle differenze locali e territoriali qualunque esse siano. Una volontà di non vedere nei modelli proposti dall’occidente il meglio di quanto possiamo aspettarci in fatto di libertà e democrazia. Ma anche questa è utopia, infatti nel film alcuni personaggi portano avanti, prima di tutto, solo i loro traffici (sia leciti che illeciti). E questo è il business, l’economia. Solo il fare girare i soldi significa dare nuove speranze, significa aprire spazi, dare possibilità. Ma sempre di soldi si stratta. Sempre di illusioni, delle solite gabbie. E in questo purtroppo c’è già la fine di ogni libertà.
Uno stile sobrio, descrittivo, a volte umoristico, ci accompagna in questo viaggio. La terra fatta di sassi e fratture non ha nullo di bello. I vecchi sembrano avere ancora dei valori o per lo meno si sforzano di dare importanza (più di ogni altra cosa) ai rapporti umani. E se al di là della povertà fossero invece questi i resti del comunismo? Il prossimo come uomo, come tuo simile, non solo un’ombra che cammina a cui non rivolgerai mai la parola. Ci sono cose a cui non so rispondere. E altre a cui mi piacerebbe tanto credere.