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Il tè dell’oblio – Yang Jiang

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  Bellissimo perché evocativo. “Il tè dell’oblio” di Yang Jiang è evocazione di due culture: quella europea e quella cinese. Lei, scrittrice, traduttrice e prima ancora studiosa della letteratura internazionale, tra le righe si nota la sua sensibilità cosmopolita che le permette di prendere in considerazione due culture molto diverse e come in una danza avvicinarle, aggrovigliarle e districarle in un balletto giocoso ma lucido che unisce le diversità culturali partendo proprio dalla cultura, quella alta: la letteratura. Citati sono il Don Chisciotte di Cervantes, La tempesta di Shakespeare, Il diavolo zoppo di Lesage e poi anche se non citato si sente nel primo capitolo, come afferma anche Silvia Calamandrei che ne ha curato la post-fazione, la presenza di Carroll con Alice nel paese delle meraviglie; mentre per quanto riguarda la “sponda” asiatica abbiamo altri grandi classici come Lo Scimmiotto (o originariamente Viaggio in occidente) di Wu Cheng’en, La vera storia di Ah Q di Lu Hsün e commenti dei Dialoghi di Confucio e considerazioni di Mao…per citare quelli più conosciuti e che soprattutto si possono trovare tradotti in italiano. Sicuramente uno degli anelli di giuntura nel libro tra le due culture è un certo gusto e amore oserei dire per la letteratura fantastica, che prende in considerazioni il tema del viaggio, che a seconda della chiave di lettura ha significati più o meno profondi (e tra tutti quelli sopra citati il più semioticamente complesso e avvincente è Lo scimmiotto, nel quale tra l’altro si possono trovare similitudini, ma non analogie, con tanti autori europei di vari periodi come per esempio i fratelli Corra, scrittori del surrealismo italiano.) Certamente non si tratta di uno di quei prodotti culturali orientali che prendono in considerazione le due grandi culture occidentalizzando però il proprio operare. Non si tratta se vogliamo di un prodotto orientale commerciale che vuole sbarcare il confine.

  La tematica principale del libro è il rovesciamento, caratteristica fondamentale della letteratura fantastica insito nel tema del viaggio. Infatti solitamente nel viaggio c’è mutamento e/o rovesciamento di pensiero del protagonista o del suo stato sociale o via dicendo. In questo libro che è soprattutto autobiografia la protagonista Yang è costretta al rovesciamento del suo status socio-culturale a causa delle regole totalitarie del regime culturale instauratosi negli anni ’60, in particolar modo l’autrice prende in considerazione gli anni del 1966 e ’67: gli anni della Rivoluzione culturale. Lei viene accusata di essere un’intellettuale borghese insieme al marito e così costretta a lasciare il suo lavoro di insegnante di letteratura per andare a pulire i cessi dello stesso istituto in cui lavorava. Il rovesciamento ha del surreale…in tutta la sua verità di autobiografia. Il suo lavoro diventa la sua colpa, è costretta a lasciare la sua bella casa, le rasano i capelli, le vengono confiscati libri che secondo il regime erano da considerarsi materiale nero e viene costretta a dichiarare più e più volte in pubblico i suoi ‘reati’ autodenunciandosi: questo è il programma rieducativo che le masse hanno scelto per lei, che in fin dei conti non era considerata così pericolosa… Come è scritto nel retro copertina: “Non vi è nulla di tragico, né nella figura della protagonista, né negli eventi narrati. Ma è proprio questa banalità del male che rende il racconto agghiacciante.”

  Il libro a livello formale è diviso in tre: una prima parte: “Il tè dell’oblio” che come dice il sottotitolo è una: “Fantasticheria a guisa di premessa”; una seconda parte intitolata: “Memorie degli anni Bingwu e Dingwei” sottotitolata: “Nuvole nere orlate d’oro”, che rappresenta la parte più sostanziosa e autobiografica del libro, e una terza parte: “Il manto dell’invisibilità” ovvero: “Ragionamento per assurdo, a guisa di postfazione”.

La prima e la terza parte sono quelle più brevi ma delle vere e proprie perle di letteratura. La cosiddetta premessa: “Il tè dell’oblio” unisce una dimensione onirica a una socio-culturale di repressione che, a differenza di quella violenta della seconda guerra mondiale per prendere in considerazione la più nota, è subdola e strisciante: quasi le persone non si accorgono di essere assoggettate psicologicamente violentate (e sicuramente in questo discorso illuminante è il meraviglioso saggio di storia della politica contemporanea di Bracher: “Il Novecento e il secolo delle ideologie”). La protagonista si trova su un treno, luogo deputato o meglio simbolo dell’immaginario comune della repressione ebraica e non solo, dove insieme ad altre persone è condotta nella: “Sala da tè della Signora Meng”. Qui le persone sono subdolamente (non)-costrette a bere il thè dell’oblio  in una sala quasi divertimenti (il libro è scritto negli anni Ottanta e in questo a mio avviso c’è una critica per una società nuova che all’autrice, una donna nata nel 1911, con una compostezza e umanità da vera Signora  probabilmente lasciava molte perplessità). Con gli anni Ottanta e l’inizio della globalizzazione si è assistito ad una perdita di molti valori che pian piano si sono andati sgretolandosi e uno di questi è il valore della memoria socio-culturale. Il tè dell’oblio fornito da una probabile entità governativa fa perdere a tutti la memoria. Per convincere la gente a bere di questo thè si mette di fronte al singolo individuo lo schermo televisivo con le immagini più umilianti della propria vita così che tutti alla vista delle proprie vergogne decidono di bere il thè e dimenticare. La protagonista che non vuole dimenticare, in tutto questo rimane interdetta e come in un sogno-incubo non sa cosa fare…ecco che inizia la parte centrale del libro dove si comincia a parlare della Rivoluzione culturale.

  L’ultima parte del libro invece tratta del “manto dell’invisibilità” e a mio avviso può essere considerata una critica alla società dell’immagine, ai desideri di gloria vacua, e ne parla prendendo in considerazione la cultura orientale e quella occidentale: con detti diversi si verifica la tesi per cui: “come dicevano gli antichi, «Siamo tutti uomini, in fin dei conti».

  Un’autrice di una lucidità e un’umanità sorprendente e un libricino veramente ben fatto con note di approfondimento e post-fazione. Pubblicato da Einaudi contemporanea nel 1994.

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