Prima di passare all’analisi che una lettura oramai antica mi suggerì del romanzo in questione, una premessa è d’uopo: esso rappresenta il punto d’arrivo, la trama di un canto, iniziato dall’autore trent’anni prima attraverso la narrazione tipologica di personaggi ed ambientazioni, che poi trovano chiarificatore inserimento nell’ultima opera, purtroppo incompiuta: “La scelta”.
All’epoca della lettura non sapevo del Dessì nulla di tutto questo, né tantomeno gli antefatti, le letture, la base filosofica robusta che fu suo costante nutrimento, e che lo fece definire fin dal 1939 (anno d’uscita del primo romanzo, “San Silvano”) il Proust italiano.
Solo che, mentre Proust è universalmente noto, non foss’altro perché oggetto di trattazione per gli studenti italiani di letteratura francese, Dessì non gode della stessa fama. Forse perché i curricoli scolastici di letteratura italiana si fermano ben prima. A malapena si riesce ad arrivare all’epoca di Italo Svevo e di Luigi Pirandello, e di solito ci si arriva a fine anno scolastico, quello fatidico degli esami di maturità.
STORIA DI UN CIVES SARDO
Da principio il tempo dedicato alla lettura dei romanzi gli sembrava del tutto sprecato e leggeva esclusivamente libri di storia. Ma poi si lasciò tentare e lesse il primo romanzo della sua vita. Fu fortunato, perché gli capitò tra le mani Eugenia Grandet. Ne rimase affascinato. Attraverso la figura del vignaiolo e dei prinzipales[1] della cittadina francese, capì tante cose che né Cantù[2] né Guicciardini avevano saputo insegnargli. (pagg. 281- 282)
Leggendo questo affresco corale del sistema sociale in un paesello sardo, scandito attraverso il tempo d’una vita (quella del protagonista assoluto della narrazione: Angelo Uras) s’imparano molte più cose che non leggendo tomi e tomi di storia.
S’impara, ad esempio, che il notabilato possidente sardo, ovverosia la classe dirigente locale dell’epoca, nutriva idee federaliste (donde, si spiega come il Dessì abbia citato il Cantù tra le letture dell’oramai attempato Angelo Uras).
Una saga, quella qui proposta, dal sapore antico eppur attualissimo, se si pensa a certi odierni tentativi degli attuali “prinzipales” italici di stravolgere l’impianto costituzionale italiano, nelle parti in cui organizza e definisce la potestà normativa statuale e regionale.
Qui di seguito riporto un prezioso contributo che un appassionato del Dessì ha voluto inviarmi, sulle vicende storiche di una parte d’Italia che a volte si conosce poco.
Per tutto l’Ottocento la Sardegna ha lottato strenuamente per l’attuazione del decentramento amministrativo e per il riconoscimento dell’autogoverno delle periferie G.F. Tuveri, G. Asproni, G. Todde e altri (anche il don Francesco Fulgheri di Paese d’Ombre), si sono strenuamente battuti per ottenere una serie di riconoscimenti che oggi il Nord chiama DEVOLUTION…
I Savoia, diventati titolari di un titolo regio a causa della rivisitazione degli accordi di pace seguiti alla guerra dei Sette Anni, che inizialmente assegnò loro la Sicilia, mal volentieri si dedicarono alla Sardegna che comunque diede loro il titolo regio, per nulla scalfendo il malcostume e il malgoverno istituzionalizzato durante i circa tre secoli di dominazione catalano-aragonese-ispanica. Qui da noi, dopo aver messo “a mare” i Savoia in una rivolta di fine Settecento il cui capo più rappresentativo era G.M. Angioy, si decise addirittura di sciogliere il Parlamento, nominalmente vivo e funzionante, offrendo al Re i poteri virtualmente gestiti dagli Stamenti (di fatto non avevano più alcuna funzione realmente riconoscibile).
Dopo quell’atto si assiste ad una crescente e a dir poco allucinante spoliazione legalizzata (di cui Dessì si fa portavoce) ancora oggi in atto
Attraverso dunque le riflessioni del “padrino” del piccolo Angelo prima (rimasto orfano di padre) – il conte avvocato don Francesco Fulgheri – ed Angelo uomo dipoi, ecco come Dessì narra che fu recepita l’unificazione d’Italia in quella parte dell’ex territorio sabaudo (la Sardegna): Intanto era stata proclamata l’unità del Regno, e Fulgheri non si stancava di ripetere che si trattava della unificazione della burocrazia dei diversi stati italiani; […] l’unità vera, quella per la quale tanti uomini si erano sacrificati, si sarebbe potuta ottenere soltanto con una federazione degli Stati italiani (pag. 17).
Angelo, anni dopo, non la pensa diversamente da don Francesco, assieme al quale anni prima aveva rischiato di essere ucciso in un attentato, mortale solo per il generoso don Francesco (la vendetta di un criminale che questi aveva fatto prima condannare, e poi assoldato come stalliere dopo che aveva scontato la pena nelle patrie galere, si era tradotta nel manomettere i finimenti del cavallo che trainava il calesse, su cui montavano appunto don Francesco ed il piccolo Angelo). Ecco le sue riflessioni a proposito di un’accolita di boscaioli che una compagnia mineraria piemontese aveva mandato a disboscare ettari di foresta intorno a Norbio (il villaggio che funge da scenario alla narrazione): Quella diversità di accenti e di caratteri gli faceva pensare alla guerra, anzi alle guerre alle quali aveva preso parte, come tanti altri, “per fare l’Italia unita”. Ma era stato soltanto ingrandito il regno del Re sabaudo […] La vera faccia dell’Italia […] era quella che sentiva urlare nella bettola – divisa come prima e più di prima – giacché l’unificazione non era stata altro che l’unificazione burocratica dei varii stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà, fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comune se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati. Persino l’idea della libertà, quale l’aveva espressa la Rivoluzione francese, contrastava con l’unità italiana qual’era uscita dalle mani di Mazzini e di Garibaldi che, entrambi in modo diverso, avevano finito per tradire la causa per la quale avevano chiesto il sacrificio di tante giovani vite. (pagg. 117- 118).
Chissà come mai a scuola non viene proposta anche questa lettura del Risorgimento… Non saprei spiegarlo; quel che v’è di certo è che non posso fare a meno d’ipotizzare che la monocorde proposizione e propalazione di una sola idea ha finito per contribuire al fomentare quel separatismo di bassissima lega che è alla base della cosiddetta “devolution”.
Continuiamo con questa interessante rilettura storiografica sub spoglia di riflessioni del protagonista Angelo Uras, nel frattempo asceso alla carica di sindaco di Norbio, un quarantennio circa dopo l’unificazione: all’epoca delle famigerate cannonate del generale Bava Beccaris sul “Continente”, per intenderci; e delle parallele repressioni sanguinose delle rivendicazioni dei minatori sardi sull’Isola. La terza persona narrante può spingersi al di là del narrato, proiettando il lettore verso ciò che sarebbe accaduto dopo:
[…] tutta l’Italia appariva come un paese di poveri, destinati a far da comparsa in un grande dramma storico. Dopo la fiammata del Risorgimento, era cominciata l’Italia istituzionalizzata dei prefetti e dei generali, l’Italia della tassa sul macinato e di Dogali, che possedeva soltanto di nome indipendenza, unità e libertà, e nelle sterili polemiche tra Destra e Sinistra si delineava già l’inetta classe dirigente che doveva accompagnarla verso la Grande Guerra e il fascismo (pag. 278).
[…] In questo spettacolo, solo le comparse erano uomini autentici. Forse il brigantaggio non fu altro che una rivalsa delle comparse, che cercarono, per un momento, di mettersi al posto degli attori i quali, imperterriti, recitavano accademicamente la parte che si erano attribuita sul palcoscenico di Roma.
Le “comparse” oggigiorno non sono certamente più quelle. Ma le ingiustizie sociali esistono ancora, colpendo fasce impensabili fino a qualche decennio fa.
Ed il grado d’istruzione non preserva dalla mannaia della disoccupazione, inoccupazione, mala e precarizzata occupazione.
Un libro denso di contenuti e drammatico quanto dovuto, in cui compaiono altresì scene di vero amore per gli animali (il cavallo Zurito e la cagna Carignosa) e persino una proto- consapevolezza della questione femminile, da parte della sventurata Valentina, prima moglie amatissima di Angelo (i due vengono sposati durante la messa della notte di Natale): Il prete ora stava leggendo l’Epistola [una di quelle del san Paolo ultra maschilista ultima maniera, presumo]: «Fratelli miei: che le donne siano sottomesse ai loro mariti come al Signore, perché l’uomo è il capo della donna così come il Cristo è il capo della Chiesa, che è il suo corpo…». Valentina sentiva male ai ginocchi. Riconosceva la voce dell’arciprete che aveva udito tante volte dietro la grata del confessionale, ma amplificata ora, autoritaria e quasi terribile in quelle parole assurde. Perché lei avrebbe dovuto essere sottomessa ad Angelo? Lei lo amava, aveva dormito con lui, avrebbe cucinato per lui, gli avrebbe lavato e stirato le camicie. Ma questo non significava essergli sottomessa. Sarebbero stati sottomessi l’uno all’altra, reciprocamente (pag. 167).
Da queste righe emerge una capacità d’immedesimazione nella psicologia femminile, esaminata atraverso varie tipologie caratteriali differenti, ma in qualche modo unite dal comune denominatore dell’amore (materno o muliebre, o filiale) per Angelo. Sempre riportando il punto di vista di Valentina, l’autore pone in evidenza una riflessione, tutta interna alla pietas femminile, quando dall’altra parte del confessionale invece trova la rozzezza che hanno i preti con gli innocenti e con i deboli (pag. 161).
Infine, ecco come viene reso il punto di vista di una collettività permeata di una sorta di cultura del sospetto, che facilmente alligna in sistemi sociali chiusi: Nessuno credeva che Angelo fosse capace di uccidere; eppure, in quel momento, tutti lo pensarono colpevole, senza prove, senza nemmeno indizi che giustificassero questa convinzione, all’infuori del fatto che fra Angelo ed Àntola [un rude contadino toscanaccio di quelli d.o.c., caposquadra dei tagliaboschi più su citati] i rapporti erano molto tesi. (pag. 127)
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Giuseppe Dessì (Villacidro, Cagliari, 1909 – Roma, 1977), romanziere italiano.
Con questo romanzo, il Dessì si aggiudicò il Premio Strega nel 1972.
Giuseppe Dessì “Paese d’ombre”, Club degli Editori, Milano, 1972, su licenza Arnoldo Mondadori Editore s.p.a.
Prima edizione: Arnoldo Mondadori s.p.a., Milano, 1972
La prima versione della presente recensione è pubblicata su www.lankelot.com.
[1] Notabili.
[2] Cesare Cantù (Brivio, Como, 1804/ Milano, 1895). Letterato di gusto romantico, nutrì idee antiaustriache che gli costarono il carcere nel 1833-34. Di tendenze politiche neoguelfe, dal 1848 le sue concezioni involsero in senso aspramente antiliberale e filoclericale. L’opera a cui il Dessì qui si riferisce è probabilmente la divulgativa “Storia universale”, edita tra il 1883 e il 1890 in ben 52 volumi. Benché disorganico e poco attendibile, questo mastodonte costituì un grande successo editoriale. Da: Enciclopedia Garzanti della letteratura.