Giocare negli anni ’70 voleva anche dire suonare. Come per il francese “jouer” e per l’inglese “to play” (entrambe significanti “suonare” e “giocare”), finalmente le due parole coincidevano anche in Italia. Fu allora che apparvero i primi strumenti musicali giocattolo che andavano un po’ più in là del tamburo e il sonaglio per l’infante o il flauto dolce scolastico, e un po’ più in qua della pubertà costretta al solfeggio e alla tortura del vero studio su veri strumenti musicali sotto severi e pretenziosi genitori (v. David Helfgott in “Shine“) e maestri di musica. Noi bambini potevamo finalmente suonare giocando, o giocare suonando con strumenti musicali che non suonavano forse benissimo, ma neanche portavano a frustrazioni precoci o a farci odiare lo studio della musica e la musica in toto. Credo che questo ci diede un approccio giocoso e gioioso tale che, chi veramente interessato, è poi approdato con tutta tranquillità e piacere a strumenti più seri e veri.
Insomma, siete avvisati: oggi suonare strumenti o vecchi strumenti giocattolo fa molto tendenza. E’ assolutamente à la page. Se ne avete, non buttateli. Se suonate, riscopriteli! Se fate dei dischi, farete pure un figurone.
Tra le tante giocate sonore o musicali degli anni ’70, noi più vicini ai padri dei padri di decenni e secoli più lenti, ricordo che si tramandavano ancora cose vecchie o antiche (è così ancora?), semplicemente senza tempo. Una di queste era l’irridente e pernacchioso suono dell’ancia labiale su certi fili d’erba, o erba sonora, quando si andava nei prati (già, perché allora l’andare per i prati alla domenica era un qualcosa di consueto e ampiamente condiviso, dove fra l’altro raccogliervi il tarassaco detto cicoria era cosa gustosa uguale per poveri o per ricchi, e soprattutto possibile, prima che tutto divenisse proprietà edificata e privata… Il che meriterà un articoletto a sé).
L’erba sonora non era meno antica del pettine sonoro. Me l’aveva insegnato mio padre, che con un foglio di carta velina, un elastico e un pettine, si poteva ottenere un rudimentale strumento musicale. Si prendeva un pettine, lo si ricopriva con la carta velina, fermata per lungo da un elastico. Si accostava la velina alle labbra, ci si soffiava sopra modulando le vibrazioni come su un’armonica. Il suono era quello di un kazoo.
Noi lo vedemmo suonare in televisione da Renato Rascel e ci sembrava un gioco nuovo, ma invero era così antico da essere citato fin dal Seicento anche ne “L’Adone” dal poeta barocco e manierista Giovan Battista Marino, che delle poesie pastorali pur divenne un maestro:
Stava costui con pettine sonoro
sollecitando armonico stromento.
Un cinghiale in disparte, un cervo, un toro
teneano a quel sonar l’orecchio intento.
Ad ogni modo, crearsi per gioco degli strumenti musicali primitivi (e giocattoli e giochi in genere) era pratica diffusa tra noi bambini. Allora i detersivi venivano commercializzati in fustini cilindrici e rubaspazio. E quei fustini erano per noi tamburi, rullanti da suonare con bacchette o stecche variamente rimediate. Facevamo suonare di tutto. Ricordo un gioco a casa di un amico, in cui dovevamo improvvisare, far suonare dietro certi dischi qualunque oggetto a portata di mano in salotto, incluso il corpo (come nell’album di Ron Geesin e Roger Waters dei Pink Floyd – Music from the body e quel brano d’apertura in cui i due si esprimevano colc corpo seduti su un water…) Non c’era davvero bisogno di animatori musico-terapeuti per inventarci questi trastulli, perché nascevano in noi spontanei. A me piaceva anche far ronzare gli elastici, variandone l’estensione, portandoli all’orecchio o costruendovi apposite casse armoniche con scatole varie. E questo mi fa ricordare anche altre cose. Sparare gli elastici addosso ai compagni di classe, per esempio, che comportava varie tecniche di più o meno pesante potenza di tiro e offesa, uso a mo’ di fionda incluso con proiettili più o meno sostanziosi come le palline di gomma-pane. Ma anche un certo gioco, che vedevo spesso fare al mio amichetto vicino di casa quando giocavamo sullo stesso balcone lungo col ballatoio. Si faceva rigirare un elastico tra le dita delle mani, componendo e sciogliendo con movimenti vari intrecci e figure. Ma io quello, non riuscì a impararlo mai. Tutt’altra faccenda era invece il gioco dell’elastico. Lo si giocava almeno in tre. Due tenevano l’elastico ai due estremi, prima alle caviglie e poi sempre più su intorno al corpo fino al collo, mentre il terzo doveva superare una serie di figure regolate saltando dapprima, poi usando le braccia e le mani per aggirare o intrecciare l’elastica fettuccia… Io credo che non lo giochi più nessuno ed è un vero peccato, specialmente se penso che il “gioco dell’elastico” oggi fa pensare piuttosto al bungee jumping… Che pur bello sarà, ma certo, spero, non per i bambini. Lo giocavamo anche nel cortile della scuola, e credo che quel gioco avesse un particolare pregio: in quei tempi di fresca promiscuità (poco prima esistevano le classi separate e i giochi soltanto maschili o soltanto femminili), il gioco dell’elastico si giocava insieme maschietti e femminucce indistintamente. E i giochi che si giocavano insieme non erano affatto molti. C’era molto razzismo sessista da entrambe le parti. Forse quello fu addirittura l’unico gioco comunemente accettato, senza vergogne e riserve maschili da una parte o costumatezze e riserve femminili dall’altra. Ne divenni così dipendente, da dovermelo giocare anche a casa da solo, mettendo la fettuccia elastica tesa tra due sedie messe una di fronte all’altra.