Al 1958 risale la nascita del primo videogioco ideato da Willy Higibothan. Nel 1961, uno studente universitario creò un gioco chiamato Space War che venne diffuso e giocato sui computer di tutte le università d’America. Nello stesso anno Kay Bushnell creò una sua compagnia chiamata Atari. Nel frattempo nasce l’Odissey, una consolle che vendette 100.000 unità. Ma quelli erano gli Stati Uniti.
Negli anni ’70, e soltanto sul finire di quel decennio, apparvero i primi giochi elettronici in Italia. Oggi la Play Station e il personal computer consentono di giocare un’infinità di giochi sempre diversi. Allora, nelle case, non erano ancora arrivati i personal computer, e gli emulatori di primissima generazione erano grandi e costosi abbastanza da poter essere acquistati o noleggiati e alloggiati unicamente nelle sale gioco dei bar insieme ai biliardini per la carambola e ai flipper. Indimenticabili lo Space Invaders e il Pong, ambedue della Atari (l’altro gioco elettronico memorabile, ossia Pacman arriverà nel 1980). Il Pong era un ping pong o tennis elettronico con cui la Atari iniziò la propria attività di progettazione e produzione di videogiochi, tra i primi in assoluto nella storia della industria videoludica. Era il 1972. Ma non bisogna confondere il Pong primitivo, vero e proprio mobile con un suo proprio schermo e gli spinner per giocarvi in piedi in sala giochi con quello successivamente creato come versione domestica, una delle primissime consolle applicabili al televisore di casa. Io di quest’ultima feci esperienza a casa di un amichetto e fu entusiasmante. Nei ’70 ci si divertiva ancora con semplici giocattoli, cose come i fortini con i cow boys e gli apaches, le macchinine molleggiate della Majorette o le Hot Wheels Brucia Pista, gli animaletti di plastica, i giochi da tavolo, il traforo, il meccano o il piccolo chimico, il freesby o il pallone da calcio di tessuto plastico Super Tele (economicissimo, disponibile nei vari colori delle squadre favorite, a pentagoni alternati a esagoni blu e nero, bianco e nero, rosso e nero… ma anche veloce a sgonfiarsi e facile a bucarsi, improbabile nelle traiettorie alla prima folata di vento); o tutt’al più i giocattoli elettrici come autopiste della Polistil, le macchinine radiocomandate o i trenini. L’elettronica in casa anche per giocare, dopo tanta fantascienza in tv, i sintetizzatori nello Space Rock glam dei Rockets pelatissimi e di pelle dorati o argentati, degli Space (quelli che suonavano indossando tute e caschi spaziali) e di Dee Dee Jackson, il design futuristico d’ogni cosa (dai televisori Brionvega alla poltrona sacco) e il dopo sbarco sulla Luna, ci fecero sentire davvero proiettati ormai nel vivo del futuro ideale per tutti, bambini inclusi.
Le consolle Atari Pong e cloni giunsero in Italia nel 1977, si collegavano al televisore, vi si giocava in due o in quattro a tennis o ping pong con varianti tipo squash e pelota. Rigorosamente bianco e nero, a parte l’entusiasmo iniziale, ricordo che l’interesse per questo antenato dei giochi elettronici andò presto tra noi scemando. Da una parte noi, che si veniva da giochi giocati ancora in strada, nei giardinetti e nei cortili, fisici e socializzanti, eravamo una generazione che amava ancora sfogare energie stando all’aria aperta. Dopo un po’, quella pallina elettronica ci impoltroniva e irritava abbastanza i nostri nervi con il suo monotono andazzo e il bip bip bop sempre uguale… Tornammo senz’altro indugio a combattere al vecchio tavolo da ping pong o ripiegammo ancor meglio sulle prime tavole dello skateboard.
Il Pong declinò nello stesso anno in cui giunse in Italia, nel 1977, sicché negli States già si andava affermando qualcosa di più appetibile, ovvero il VCS 2600 (Video Computer System) della Atari, la prima consolle a cartucce intercambiabili. Finalmente si poteva cambiare gioco, ma il prezzo era troppo alto. In America 350 dollari al lancio e 40 dollari al gioco. Degli anni ’70 ricordo anche la nascita del primo Game Boy della Bradley: era il Microvision, la prima console portatile a cartucce. Il resto verrà dopo, inclusi Commodore 64 e Vic 20 che nel 1980 diedero inizio agli anni d’oro dei videogiochi, venduti non soltanto come tali, ma come veri e propri home computer con varie espansioni addizionabili che potevano far girare programmi utili a tutta la famiglia.
L’elettronica era ancora poca ed esercitava su di noi un fascino smisurato. Perfino le prime calcolatrici tascabili divennero da subito oggetto di grande desiderio (e non solo per aiutarci a fare i compiti di matematica). Era talmente bello vedere quelle cifre azzurre, verdi o rosse, o i primi cristalli liquidi, che divenivano esse stesse un qualcosa di nuovo per giocare (per esempio, scoprivamo come scrivere e passarci in classe frasi con i numeri da leggere al contrario: 0.5535 ovvero “sesso” era la più piccante, 1 era I, 2 era Z, 3 era E, 4 era h, 5 era S, 6 niente, 7 era L, 8 e 9 niente, 0 era O…). Era così bello avere per le mani quelle cose elettroniche sul nascere che anche i primi orologi al quarzo, enormi patacconi di plastica (mitico il Texas Instruments), che pure guardare l’ora, illuminando le cifre digitali sul nero schermo con un tastino, era un modo di giocare all’uomo del futuro; e poi si cronometrava di tutto.
Elettronica a parte… Il frisbee (o disco volante) arrivò da noi proprio negli anni Settanta. In realtà, prima di diventare un passatempo da spiaggia in plastica e addirittura un vero e proprio sport agonistico con diverse discipline e modalità di gioco, il friesbee nasceva casualmente nel campus di Yale negli anni Cinquanta. Durante le feste, dopo aver consumato torte della pasticceria Fiesbie e dopo aver alzato il gomito, i goliardici studenti si lanciavano il sottotorta metallico, da prendere senza farlo cadere a terra.
Un gioco molto in voga fu il Going, costituito da un ovale arancione o giallo di plastica con due fori alle estremità. Nei fori passavano due cordicelle di nylon incrociato che terminavano in due maniglie per lato. Si giocava in due, uno di fronte all’altro, allargando le braccia, quindi le maniglie e le corde e così lanciando l’ovale, che scorreva fino all’avversario, il quale provvedeva a fare altrettanto rilanciando e avanti. Anche se era ben visto e veniva incoraggiato dagli adulti, perché giocarvi era considerato un ottimo esercizio di sana ginnastica contro le scoliosi tipiche dell’età, a me non piaceva (e, infatti, resterò anche da adulto afflitto da scoliosi e cifosi). Era un gioco di cui non capivo la finalità. Come si vinceva? Chi perdeva? Che varianti o regole applicare? Il gioco si faceva presto un monotono (e faticosissimo) scambio dell’ovale con altrettanto noioso e continuo fermarsi dell’ovale a metà strada, se non a causa dei fili che si intorcicavano, per la forza o il ritmo insufficienti dei giocatori (per es. quando l’avversario che doveva ricevere l’ovale, imbranato, apriva in anticipo i fili). Il Going diventava più divertente quando in spiaggia si sganciavano maniglie e cordicelle, per ricavare dall’ovale una palla da rugby, cui somigliava.
Altro gioco, che impazzò per lo Stivale e secondo me dovrebbe essere assurto a simbolo dei giochi degli anni ’70, furono le palline clic clac. Si trattava di due palline di legno o di plastica legate alle due estremità di una cordicella a “V” con un anello per impugnatura, così variamente colorate o decorate da poter catturare il capriccio dei collezionisti. Lo scopo del gioco era quello di riuscire a far sbattere con abilità e velocità crescenti e quante più volte possibile le due palline fra di loro, mantenendole in percussione. Mia madre era una giocatrice accanita: le faceva battere una sull’altra a una tale velocità e con effetti di polso tali da non distinguere più le palline in quel vortice colorato. Facevano un fracasso infernale. Io bambino non dovevo usarle, ma quando rimanevo solo ne approfittavo per fare i miei tentativi, quasi tutti miserrimi e dolorosi, perché le palline mi sbattevano spesso sui polsi e sulle mani facendomi un male cane. Poi scomparvero, sia da casa, sia dal mercato. In effetti fu sempre più ritenuto un gioco pericoloso, quasi ogni giorno nei pronto soccorso d’Italia finiva qualcuno feritosi o ammaccatosi con le clic clac. Oltre a picchiare malamente sul polso o sulle braccia, spesso le palline volavano via dalle mani del giocatore, che nella foga del gioco ne aveva perso il controllo (e prendersele in testa a quella velocità era una bella mazzata). Talvolta, battendo energicamente, le palline di plastica si scheggiavano (e le schegge schizzavano anche più rischiosamente). Negli Stati Uniti ci furono perfino dei morti a causa delle clic clac… Insomma, furono letteralmente bandite dal commercio.