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Alfie – Bill Naughton

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(traduzione di Ugo Carrega rivista da Cristiano Armati – copertina di Alessandro Tiburtini – Newton & Compton editori, collana Anagramma n. 5 – Roma, febbraio 2005 – 288 pp. –
www.newtoncompton.com)

Un milione di donne, nessun amore o un solo amore vero – quello per suo figlio Malcolm, un amore a distanza, che a sprazzi gli maciulla le viscere. Sesso impotenza giovinezza vecchiaia, bellezza e moda, New York e una malattia mortale ai polmoni scampata per miracolo. Alfie, nell’eternità di due traduzioni cinematografiche e numerose riduzioni teatrali, pubblicato per la prima volta nel 1966, interpretato prima da Michel Caine e da Jude Law poi, musicato da Mick Jegger e scoperto – come spolpato – da milioni di lettori in quasi quarant’anni, è insieme persona e personaggio, pagine e odori, grande per la sua bellezza impenetrabile, per lo sguardo ammiccante che spara nella telecamera di Charles Shyer, per l’incoerenza seducente dei modi, per la tragica ironia delle parole. “Autista libertino”, “scapolo impenitente”, “eterno immaturo”, “cane bastonato”, playboy spaccone che, secondo lo stesso Mick Jegger, “won’t let the love in”, Alfie è ancora un personaggio profondo e mutevole, capace di crescere letteralmente di spessore nel corso del romanzo, come se il dileggio con il quale condisce qualsiasi suo discorso o riflessione fosse solo un escamotage per affrontare la vita di petto, un modo forte di dissacrare il dolore. Oppure il contrario. Pagine dense come marmellata artigianale, amori notturni e veloci e violenti come una corsa mozzafiato in auto, presagi di distruzione intrisi di sentimento, disperati come le confessioni in punto di morte, feroci come annegare dentro manciate di narcotici abbrutenti. È una strana sensazione quella che provi quando guardi la faccetta rossa, grinzosa e brutta di un neonato e senti qualcuno che ti dice che tu sei il padre. All’inizio è difficile da credere. Poi ti assale una strana sensazione, come quando svolti l’angolo di una casa e ti imbatti all’improvviso in una banda che suona. Scritto in prima persona e travestito da diario svogliato di un originale tombeur de femmes, il romanzo di Bill Naughton – baffuto eclettico artista irlandese, tessitore carbonaio camionista romanziere sceneggiatore regista documentarista, allo stesso tempo bizzarro e inequivocabilmente affascinante come il suo prediletto figlio letterario – è insieme l’orgoglio trasparente della medaglia appena conquistata e il suo risvolto triste e sudato, il venticello fresco delle rocambolesche notti estive passate a fare l’amore dappertutto e la fredda nudità di un sanatorio che geme strepita e tossisce, l’abbagliante incoscienza della giovinezza eterna e il cupo riflesso della senilità negli occhi dei vecchi, non più oceani cristallini, ma solo sozze pozzanghere. Bello come massaggiarsi i muscoli dopo una lunga corsa, insieme doloroso e appagante, faticoso e necessario, Alfie scarta le donne alla ricerca di se stesso, e si traveste la voce da duro, autocompiacendosi e poi odiandosi, ma senza dirlo mai.

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