Sono pagine scompigliate dai ricordi e personaggi sfumati dal tempo, quelli raccontati con febbrile devozione dallo scrittore pugliese Natalino Lattanzi, nel suo romanzo Sorrisi a quelle parole. A fare da sfondo, come musica costante, c’è il rombo di un TB9 che acquista le sembianze di una figura semiumana e, tra “un sussulto, un ruggito, uno sputacchio”, conduce il protagonista nel cielo, grigio, pronto a scaricare pioggia e fulmini da un momento all’altro. La frase: “Un lampo illuminò la cabina di pilotaggio ed io rimasi folgorato come Paolo sulla via di Damasco” preannuncia un viaggio sui generis, ricco di suspance e colpi di scena, a volare sulla linea di confine tra la vita di terra, pesante, in parte asfittica, cadenzata dal presente, e quella eterea, impalpabile, di una trasvolata che si snoda sulla scia del passato.
Il romanzo, raccontato in prima persona, si dipana in un lasso di tempo che va dalla Prima guerra mondiale fino ai giorni attuali e diventa saga di una famiglia barese e dei suoi mille segreti, delle sue tradizioni, dei suoi pianti e delle sue risa, della convivenza forzata con una guerra non voluta ma combattuta strenuamente, delle lotte per rimanere a galla in un frammento di storia tragica che sembrava non finisse mai, della voglia di difendere le emozioni contro le coercizioni di un sistema maschilista e patriarcale (quello del bisnonno del protagonista Nicola). Il tutto si intreccia con l’interludio delle serate trascorse davanti al caminetto a sentir parlare i nonni dei loro antichi amori (“I miei nonni paterni, Raffaele e Carmela, a sessant’anni erano ancora innamorati”), delle notti insonni a leggere Verne e Dumas per ingannare la malinconia, o delle giornate accecate dal sole degli anni ’60, ad intrecciare le parole per fare colpo su “Coda ci cavallo”, futura moglie del protagonista. E viene voglia di tornare indietro, a quei tempi difficili ma ricchi di fascino, quando i giorni avevano un sapore diverso, genuino, e gli esseri umani erano pionieri non solo per se stessi. Le evoluzioni aeree, i salti mozzafiato e le mirabolanti manovre di Matteo – pilota del TB9 ed ex allievo del protagonista, destinato, quasi per missione, ad aiutare il suo ex professore a sconfiggere la paura del volo – non distraggono Nicola dai suoi ricordi ed hanno il solo effetto di colorare gli episodi con tonalità accese a tinte forti.
La voce narrante disfa con fervore il bagaglio del passato, si fa bisturi ed interviene sui ricordi smembrandoli, li smaglia, li lavora, li manipola con un misto di affezione e dedizione nel tentativo di ricomporli; ma ogni sforzo in questo senso sembra vano.
Per ogni ricordo sul quale la narrazione accende i riflettori, si apre un vuoto pronto a far riemergere dalle sue fauci emozioni paradossalmente esacerbate dall’usura del tempo.
Le immagini si rincorrono come cavalli a briglia sciolte, la voce narrante fa balzi indietro ed in avanti nel tempo, come se fosse alla ricerca di un equilibrio – forse una catarsi? – o di un appiglio, seguendo l’avventura rocambolesca dell’aereo che, forse per “la solita iella” del protagonista, si trova investito da una bufera coi fiocchi. Il linguaggio dello scrittore è accattivante e seducente al tempo stesso: abile nel tenere il lettore sulle spine fino all’ultimo e senza calare mai di tono, erudito quando si lancia nella descrizione tecnica delle modalità di volo, originale quando s’intesse con schizzi di ironia, dolcissimo quando affonda la lama nel vissuto dei sentimenti.