A cura di Bruno DiMarino
Gianluca e StefanoCurti editori – RAROVIDEO
La Rarovideo (www.rarovideo.com) colma unalacuna importante per la cinematografia d’autore italiana pubblicando in DVD ilprimo lavoro di fiction di Tinto Brass: Chi lavora è perduto(1963). Consigliamo caldamente l’acquisto. Ben fatto il book a cura di Bruno DiMarino e interessante la colta conversazione cinematografica contenuta negliextra del disco.Un cinefilo come me non può lasciarsi scappare l’occasione diraccontare uno dei più sconosciuti film del regista veneziano, al quale hodedicato il saggio Tinto Brass, il poeta dell’erotismo (Profondo Rosso,2011).
In capo al mondo – Chi lavora è perduto (1963)
Regia e Montaggio: Tinto Brass. Soggetto eSceneggiatura: Tinto Brass, Franco Arcalli, Giancarlo Fusco. Fotografia: BrunoBarcarol. Musica: Piero Piccioni. Scenografia: Raul Schultz. Costumi: DaniloDonati. Interpreti: Sedy Rebbot, Pascale Audret, Franco Arcalli, TinoBuazzelli, Nando Angelini, Piero Vida.
Sinossi (tratta da www.tintobrass.to) – Bonifacio,un giovane disegnatore appena diplomato, sta per entrare a far parte di unagrande industria, ma il lavoro non lo entusiasma affatto. Le sue idee e le suefantasie lo portano al contrario verso posizioni del tutto anarchiche, anche sedue suoi amici sono finiti in manicomio proprio a causa del loro idealismo. Ilgiovane ribelle, disilluso, vaga senza meta per Venezia, respingendomentalmente ogni tipo di autorità costituita e il sistema stesso, che dovrebbeinglobarlo. Tinto Brass appare in un breve cammeo. Nelle riprese della vogasono inquadrate le mani di Tinto Brass e parte del corpo, visto da dietro, comecontrofigura dell’attore. Inoltre appare come paparazzo nella sequenza diBonifacio B. al Festival del Lido.
Il primo Tinto Brass non è indicativo dei futurisviluppi della sua opera, ma fa presagire un talento indiscutibile. Fin dalprimo film, un lavoro di montaggio come Ça ira – Il fiume della rivolta (1964),notiamo un regista in contrasto con i movimenti di sinistra e le ideedominanti. Il film esce dopo In capo al mondo – Chi lavora è perduto (1963)per problemi di censura e distribuzione, ma è il primo lavoro di Brass. Il temapolemico è forte: le rivoluzioni sono un bagno di sangue, mentre le promesse dicambiamenti sociali spesso restano incompiute. In capo al mondo – Chi lavoraè perduto (1963) è il secondo film realizzato da Tinto Brass, ma il primo auscire nelle sale e in ogni caso il primo lavoro di pura fiction,vagamente autobiografico. La pellicola entusiasma persino un critico dal palatofine come Paolo Mereghetti, che concede due stelle e mezzo e giudica il lavoro unapernacchia anarcoide (in anticipo sui tempi) all’Italia del boom, funeraledell’ora degli ideali (ricordati dalle immagini di Paisà di Rossellini),celebrazione di una Venezia popolare e di un sano e carnale edonismo. Ilfilm scandalizza censura e critica del tempo, al punto che Brass si vedecostretto a cambiare il titolo In capo al mondo con Chi lavoraè perduto, ma non taglia neppure una scena e lo fa uscire nelle sale.Secondo Mereghetti è un lavoro che risente debiti di ispirazione con la Nouvelle Vague, sia per la libertà narrativa che per il montaggio frammentato e ricco disoluzioni bizzarre. Il Morandini dice che la censura imponetagli e modifiche, ma in realtà Brass si limita a cambiare titolo, lasciandotutto come prima. Vero che il film è impregnato di bizzarrialibertaria, che ricorda Godard e Rossellini.
Le accuse di oscenità sono dure, maingiustificate: “Il film, oltre a essere offensivo, del buon costume sessuale,è altamente offensivo di quello morale e sociale, è distruttore di tutti ivalori spirituali, è scurrile nel linguaggio”. Giuseppe Marotta nel volume Diriffe o di raffe (Bompiani, 1965) difende In capo al mondo e affermache nel film non c’è nulla proprio nulla di lesivo. È un’opera singolare,fresca, arguta, nella quale serpeggia, tutt’al più, l’inquietudine,l’insoddisfazione, l’ira innocua, l’ira paziente che oggi spesso accomunagiovani e vecchi. Il protagonista non è né un ribelle né un debosciato, masoltanto un disorientato, un impaurito che si dà animo deridendo le cose e ifatti.
Il protagonista non è un intellettuale, maun personaggio che pensa, dotato di senso dell’umorismo e di una forte carica ironica,in guerra contro tutti i principi stabiliti. Ricorda molto Tinto Brass, anchese il regista non ammette una sincera vena autobiografica. In capo al mondo- Chi lavora è perduto ha una buona resa commerciale in Italia, recuperandoin poche settimane i quarantacinque milioni di lire spesi per la produzione. Nelfilm si nota l’amore di Brass per i personaggi marginali, che sarà in primopiano anche nei lavori successivi. Brass detesta le persone potenti che condizionanola vita altrui, forse perché ha dovuto fare i conti con un padre autoritario, alquale era insofferente. Brass detesta le istituzioni, per questo nella suaopera si fa beffe di Chiesa, Stato e gerarchie di ogni tipo.
Chi lavora è perduto è un apologoanarchico sul disagio giovanile. Parte della critica parla di anarchismoumoristico, per classificare la storia di un giovane insofferente versopotere e istituzioni che non riesce a integrarsi nella società. Un vero eproprio sberleffo all’epoca dei miti e degli ideali, ma pure all’Italia delboom, realizzato da un edonista con una visione goliardica della vita. TintoBrass mette su pellicola le influenze francesi recepite durante l’esperienzaparigina, usa il dialetto, esprime la storia secondo un flusso di pensieri nonfacile da seguire, anche per colpa di un montaggio frammentato ricco disoluzioni bizzarre. Il film vede la collaborazione in qualità di sceneggiatoridi Franco Arcalli e Giancarlo Fusco, ma pure dell’ottimo musicista PieroPiccioni. Tra gli interpreti segnaliamo Sady Rebbot, Pascale Audret e TinoBuazzelli. L’ambientazione veneziana inaugura un legame tra Brass e la suaterra che non verrà mai meno e che ancora oggi risulta sempre più solido. Ilprotagonista (Rebbot) non ha voglia di impiegarsi in un lavoro che non ama e silascia andare a un flusso di pensieri che ripercorrono episodi della sua vita.Una serie di flashback montati in modo rapido e frammentario raccontanola relazione con una donna (Audret), interrotta dopo un aborto a Ginevra, maanche l’impegno politico di un amico (Arcalli) che viene rinchiuso in manicomioe di un altro (Buazzelli) che finisce in sanatorio. Il messaggio apolitico èchiaro: non è più tempo per le ideologie, così come non è il caso di illudersiper un finto boom.
Alcuni critici hanno cercato di ricondurreal discorso erotico anche la prima parte della produzione cinematografica diTinto Brass, ma questa impostazione teorica non pare condivisibile. A nostrogiudizio la carriera del regista presenta due momenti abbastanza distinti. SalonKitty (1975) fa da spartiacque tra il Brass sperimentale che ricerca unapura espressione formale e il regista che mette il sesso al centro dellacomunicazione. Questo non vuol dire che anche nel primo Brass non siano riscontrabilielementi erotici, spesso preponderanti e in bella evidenza, altre volterelegati in brevi sequenze. L’interesse per l’erotismo in Brass è sempre statoforte, come momento di trasgressione e libertà, ma il suo approccio allamateria si è andato modificando nel corso degli anni. Chi lavora è perdutopresenta riferimenti erotici nei dialoghi, nei sogni, in alcune scene d’amore,ma anche nei momenti surreali con il protagonista che immagina di trasformarela casa paterna in un bordello. Non mancano accenni di voyeurismo, cheBrass approfondirà nella fase matura, come ragazze in biancheria intima, seninudi, rapporti sulla spiaggia, su un campanile e in casa. Ricordiamo anche ladonna spiata con un cannocchiale mentre si pettina.
I momenti più interessanti del film sono i flashbackdel protagonista, l’uso del colore in poche sequenze per sottolineare unfunerale comunista e il rosso delle bandiere, il rapporto uomo – donna vistocon realismo e spirito trasgressivo, le divagazioni oniriche e un suggestivobianco e nero che valorizza la fotografia veneziana. Il protagonista è un uomoche vuole sfuggire all’omologazione, non vuole integrarsi e diventare cometutti gli altri, odia le convenzioni borghesi, anche se comprende che “il mondonon è dei mona ma di chi sa adattarsi”. Ottima la colonna sonora diPiero Piccioni che presenta brani di Rita Pavone e altri pezzi alla moda.Molte le frasi che si ricordano: “L’amore viene e va, come i vaporetti!”, “Civogliono fatti così, in modo tale che tu non sei tu e io non sono io”, “La finedi un orrore è meglio che un orrore senza fine” (riferita a un amore concluso).Geniale il finale con un Gesù onirico che parla veneziano e la scritta Illavoro rende liberi per citare i campi di concentramento nazisti.Interessanti gli elementi erotici, le scene riprese sul mare e molti elementipresenti in nuce che si svilupperanno nella successiva filmografia diBrass. Possiamo dire che Chi lavora è perduto rappresenta il laboratoriosperimentale dal quale il regista attingerà materiale per i lavori futuri.