Se uno farà una lesione al suo prossimo,
si farà a lui come egli ha fatto all’altro:
frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente;
gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro.»
Sacra Bibbia, Levitico 24, 19-20
“
Continuamente si cerca di prendere congedo dalle concezioni retributive della pena, ma ciclicamente – sotto vesti nuove o rinnovate, e magari sotto la spinta dei bisogni collettivi di punizione – l’idea retributiva mostra radici possenti e una sorprendente vitalità.”
[1]
Questo scriveva nella sua introduzione al volumetto “La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel” il grande penalista Federico Stella oltre 30 anni fa, nel presentare diversi contributi contro l’idea della “funzione retributiva” della sanzione penale.
La mia vuole essere un’osservazione meditata di un fenomeno a cui assisto oggi comunemente, attraverso i numerosi mezzi di comunicazione, in seguito alle condanne penali (o anche solo alle incriminazioni preliminari), dei responsabili di reati di qualsivoglia natura e gravità, che siano esponenti politici, “colletti bianchi”, componenti della malavita organizzata, o semplicemente comuni cittadini: l’invocazione unanime del “carcere” per i colpevoli, senza sconti o attenuanti, per un periodo quanto più prolungato e continuo possibile.
Questo significa esattamente invocare, oggi, la “concezione retributiva della pena”…
Procediamo con ordine: la pena è la conseguenza giuridica della violazione di un precetto penale
[2], sua caratteristica essenziale è l’afflittività; essa, infatti, si risolve per il soggetto cui è applicata in una sofferenza, che consiste nella privazione (o diminuzione) di un bene individuale, come la libertà, determinate facoltà di agire, il proprio patrimonio., ecc. Inoltre, in quanto inflitta dallo Stato, la pena è una sanzione pubblica, che si differenzia da altre sanzioni pubbliche (es. la sanzione amministrativa) per due caratteri:
· è sempre applicata dall’Autorità Giudiziaria…
· con le forme e le garanzie del “processo penale”.
Quello della pena, e della sua necessità in ogni ordinamento fondato su regole giuridiche, è un fenomeno costante nella storia dell’umanità, riscontrabile in tutte le epoche e presso tutti i popoli, dai più primitivi ai più evoluti; nondimeno, la ricerca del suo fondamento e della sua funzione costituisce uno dei problemi più dibattuti non solo nel campo della scienza penale, ma anche in quello della filosofia. Secondo la
teoria della “retribuzione”, la più classica e risalente della tradizione dottrinale penalistica, la pena costituisce il corrispettivo del male commesso: i sostenitori di questa idea si sono da sempre rifatti, con grande entusiasmo, alle tesi del grande filosofo tedesco
Immanuel Kant[3]. Lo spirito luminoso di Kant nella formulazione della sua teoria della pena, sembra oscurato da “visioni depressive”: “
il diritto penale è il diritto che ha chi comanda di infliggere al sottoposto una sofferenza per il suo delitto. Il Capo dello Stato non può dunque essere punito, ma è soltanto possibile sottrarsi alla sua signoria”. La pena, secondo Kant, non può mai essere comminata “
semplicemente come strumento, per favorire un altro bene”, sia esso del reo o della società. Al contrario, la pena deve in tutti i casi “
essere inflitta al reo, per il solo fatto che ha commesso un delitto[4]”.
La pena, anche secondo
Hegel, è retribuzione
[5]. Alla domanda su cosa sia allora la retribuzione, Hegel risponde dicendo che la retribuzione è “
lesione della lesione”. Questa singolare formula deve intendersi così: il reato è per Hegel una lesione di diritti e questa lesione viene eliminata mediante la lesione, insita nell’afflizione della pena, dei diritti del reo, in particolare del suo diritto alla libertà. Infatti Hegel parte dall’idea che “
la violenza viene annullata dalla violenza[6]”.
Kant stesso si domanda, poi, quale sia il genere e l’intensità della pena che la giustizia pubblica deve porsi come principio e come misura, e risponde che solo il “diritto della retribuzione” (ius talionis), può indicare con precisione la qualità e la quantità della pena.
Diametralmente opposta a questa elaborazione si è dispiegata la moderna
visione cristiana della pena, che chiede appunto il superamento della concezione retributiva verso destinazioni “altrettanto estreme”, sovente “inaccettabili” se offerte agli istintuali “
bisogni collettivi di punizione” cui accennavamo all’inizio. “
In Matteo 5, 38-42 Gesù parla esplicitamente dell’essenza della giustizia, sviluppando poi il suo messaggio in Matteo 5, 43-48 con l’esortazione all’amore senza confini che culmina nell’amore del nemico (5, 44). In ciò Gesù si discosta senza compromessi da una mentalità retributiva riferibile all’idea di giustizia. Egli cita come punto di riferimento negativo la legge del taglione e ad essa contrappone la “sua” giustizia, che non è quella che ripaga il male con il male secondo uno schema di contrappasso… Ancora una volta si chiarifica qui che il centro della “nuova e più grande giustizia” della rinnovata alleanza consiste nel radicale superamento della retribuzione e nella sua sostituzione mediante il perdono e la misericordia, le potenzialità più alte del diritto…[7]”.
A ben vedere, nei moderni ordinamenti giuridici, la pena “criminale” risponde a molteplici esigenze, per cui l’idea tradizionale della retribuzione e dell’intimidazione (in funzione preventiva) deve cedere spazio alle istanze preventivo-rieducative, soprattutto in Italia dove da oltre 70 anni vige
l’art.27 della Costituzione repubblicana che stabilisce, al suo comma III: “
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”. La pena moderna, quindi, pur conservando il carattere della afflittività, si pone l’obbiettivo di rimuovere le cause individuali della criminalità e quindi tende a proiettarsi verso il futuro. La dottrina più recente osserva che nessuna teoria è da sola idonea a spiegare la moderna complessità della pena
[8]; in particolare ci si è accorti che non trovano spiegazione, in termini di rieducazione, né la determinatezza né il carattere afflittivo (e strettamente intimidativo), di certe pene (ad esempio, l’ergastolo o, al contrario, le pene detentive di breve durata o le pene pecuniarie). D’altra parte, le idee della retribuzione e della prevenzione generale non riescono a spiegare quegli istituti (come la sospensione condizionale della pena
[9], la liberazione condizionale
[10], il perdono giudiziale
[11], etc), con i quali si rinuncia a retribuire, o a intimidire, per favorire il riadattamento sociale del reo. Occorrerebbe rivedere tutto il sistema delle fattispecie di reato e delle pene previste per ciascuna di esse? L’affermazione è retorica, e già posta in troppe occasioni…
Che la società italiana attuale sia assai rancorosa e incattivita quanto ai rapporti sociali e interpersonali, non è necessario che ce lo indichino le profonde analisi dei sociologi: i singoli ricercano spesso rivalsa, quando non vera e propria vendetta, come reazione a reali torti o presunte ingiustizie subite.
Ad un livello molto più prosaico, ma, per chi scrive consueto, data la professione di Ufficiale Giudiziario, questa concezione della “sanzione legale” come strumento di giusta retribuzione, in risposta ai danni patrimoniali (e disagio morale, o malessere psicologico), subiti da altri, è molto diffusa tra le persone comuni. Ecco che anche le sanzioni previste da norme civili (le varie forme di pignoramento, sequestro o le procedure di sfratto), per tentare di“riparare” le perdite patrimoniali subite, vengono sempre più sentite come “veicoli legali” per retribuire, ricompensare, o con termine più pesante “vendicarsi adeguatamente” di chi ha provocato danno e fastidio, violando la legge e il rispetto dovuto tra persone civili. E questo non solo da parte dei diretti interessati ma anche degli avvocati, chiamati ad assistere i cittadini, non sempre con pacata professionalità, nell’attuazione corretta di tali “veicoli legali”…
Tutto ciò si può spiegare, a parere di chi scrive, come una comprensibile reazione al lungo periodo, che ancora oggi viviamo, di oggettivo lassismo nell’applicazione delle norme di comportamento, e di scarsa effettività dell’ordinamento penale, che ha provocato nel nostro Paese un deterioramento oggettivo del livello di civile convivenza tra le persone.
La visione “depressa” che ci accompagna in questa situazione non fa che ispirarci il desiderio di “retribuire” chi non vuole (o non è in grado di) rispettare le leggi penali e civili.
Non c’è ingiustizia che noi non perdoniamo,
quando ce ne siamo vendicati.
Luc Vauvenargues